Pamphlet

La libertà ed i fini della stampa sono temi che hanno da sempre infiammato il dibattito culturale e politico tra i ceti dominanti e dominati di tutte le società, in particolare di quella occidentale; sull’argomento sono stati scritti fiumi d’inchiostro, sia da difensori sia da detrattori, che hanno utilizzato i vari generi letterari in uso. Un genere, al quale si è sovente fatto ricorso, è il pamphlet (voce francese attestata dal 1653 formata sul latino Phanfilus, titolo di una commedia latina del XII secolo): si tratta di un testo breve che dal XVII secolo ha assunto il significato di libello, scritto polemico. In questa sezione del sito si è ritenuto interessante raccoglierne alcuni con lo scopo di illustrare l’uso che ne è stato fatto per giustificare le diverse posizioni assunte dalle differenti forze sociali e politiche europee.
     Il giornalismo vero e proprio nacque nella prima metà del XVII secolo, in concomitanza con il periodo della guerra dei Trent’anni, convivendo però per lungo tempo con le forme più antiche di diffusione delle notizie come i “fogli volanti”, gli “avvisi a mano”, i “distinti racconti”, ecc. Le prime gazzette comparvero nel 1605 ad Anversa, nel 1609 a Strasburgo, tra il 1618 e il 1622 a Amsterdam, Vienna, Londra. Secondo opinione comune il primo periodico italiano uscì a Firenze nel 1636 dalla tipografia Amadore Massi e Lorenzo Landi, ma la prima gazzetta di cui si hanno tracce vide la luce a Genova nel 1639.
     La nuova forma giornalista impattò da subito con le esigenze politiche dei governanti, della chiesa e dei ceti dominanti, che la ingabbiarono imponendo la pubblicazione di argomenti propagandistici a loro favorevoli. Il periodico assunse la funzione di propagatore della politica culturale del principe e di organizzatore del consenso, per cui la sua diffusione, come d’altronde ogni attività editoriale, fu soggetta a imposizioni e controlli ferrei attraverso la concessione del “privilegio” di stampare, il controllo dei flussi finanziari e la censura preventiva. Per i trasgressori le pene potevano comportare anche <<l’estremo supplizio e la confisca dei beni>> come recitava una bolla di Gregorio XIII del settembre 1672. Soltanto nei Paesi Bassi, all’inizio del XVII secolo, la stampa potè svilupparsi con una relativa autonomia, seguita più tardi dall’Inghilterra, il cui parlamento, dopo la “gloriosa rivoluzione” del 1689, sancì l’abolizione della censura preventiva con l’emanazione nel 1695 del Licensing act. Nel contesto della lotta per una sempre maggiore libertà di espressione del pensiero si inserì l’appassionato appello al parlamento inglese di John Milton nel 1644 con il pamphlet titolato Aeropagitica.
     Nella penisola italiana la libertà di stampa rimase soffocata fino alla seconda metà del Settecento, in particolar modo nello Stato della chiesa dove il pontefice Clemente XI, nel 1719, giunse a punire con la morte l’abate Gaetano Volpini ritenendosi calunniato da un suo scritto. Un esempio di come negli ambienti conservatori venga intesa la libera espressione del pensiero lo si ritrova nel saggio Riflessioni di un amatore della verità sopra la vera libertà di pensare edito a Firenze nel 1786 presso il libraio Vincenzo Landi nel quale si volle teorizzare che la vera libertà di pensiero si ha quando ci si conforma alle leggi di natura che sono indivise con la divinità, da cui si deduce: <<che l’uomo, come figlio della natura, non ha quella libertà di pensare che egli finge a sé stesso>>.
     Con l’affermazione dell’illuminismo e con la rivoluzione francese del 1789, la libertà di espressione trovò la sua collocazione massima nell’articolo XI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo che recitava: <<La libera comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge.>> Al riguardo celebre fu il Discorso sulla libertà di stampa tenuto da Maximilien Robespierre l’11 maggio 1791 che iniziava così: <<Signori, dopo la facoltà di pensare, quello di comunicare i propri pensieri ai nostri simili è l’attributo maggiore che distingue l’uomo dal bruto.>>.
     Al periodo rivoluzionario succedettero quello napoleonico e quello della restaurazione nei quali si tornò ancora a imporre, pur con misure diverse, bavagli e legacci alla stampa in genere. Uno dei periodi più bui si ebbe in Francia tra il 1824 e il 1830 durante il regno di Carlo X che promulgò le leggi contro il sacrilegio e la libertà di stampa. Di quel periodo è l’opuscolo scritto nel 1827 dal visconte De Bonald, pari di Francia, De l’opposition dans le gouvernement et de la liberté de la presse intriso di sentimenti antidemocratici, in cui, fra le altre argomentazioni, si scriveva: <<I giornali sono dunque l’arma offensiva della democrazia e l’arma difensiva della monarchia, e con i suoi giornali la democrazia sarebbe più forte della monarchia, se questa non avesse, per reprimere i loro eccessi, la risorsa della censura….>>
     Le idee di libertà avevano ormai conquistato le coscienze delle classi borghesi emergenti; il liberalismo, dopo il 1830, divenne il sistema politico dominante fino alla prima guerra mondiale. Parallelamente andò sviluppandosi il nazionalismo che portò alla formazione dei nuovi stati nazionali, come in Italia e in Germania. Fu in questo contesto che Giuseppe Mazzini, nel 1836, scrisse la lettera-saggio Sulla missione della stampa periodica nella quale fissò i fini e gli scopi della stampa e come essa debba supportare <<la vocazione nazionale per non falsarne le tendenze; il passato, il presente, l’avvenire.>>.
     Dopo la prima guerra mondiale, con l’affermazione dei regimi totalitari e autoritari, protagonisti del XX secolo, il “secolo breve”, la stampa europea conobbe periodi di oscurantismo totale. In Italia, gia nel novembre del 1922 il “Popolo d’Italia”, il giornale di Benito Mussolini, pubblicò tre articoli dai quali traspariva netta l’intenzione di quali mezzi utilizzare per il controllo dell’informazione: riforma della gerenza, il sequestro e la censura. A suggellare il completo asservimento della stampa al regime fu la riunione dei settanta direttori dei quotidiani italiani convocata il 10 ottobre 1928 da Mussolini, che in quell’occasione dettò le linee guida alle quali ogni giornale si doveva uniformare. In merito si veda il testo dell’intervento mussoliniano ripreso e commentato l’11 ottobre dal “Popolo d’Italia”: Il discorso fondamentale del Capo del Governo ai settanta Direttori dei giornali del Regime .
     Dopo la seconda guerra mondiale, in Italia, si aprì, nel mondo culturale, un’ampia discussione su come salvaguardare il diritto alla libertà di stampa. In quell’ambito, nel corso del 1947, ci fu in interessante dibattito presso la Casa della Cultura di Milano presieduto da Mario Borsa, direttore del “Corriere della Sera” postliberazione, dal titolo <<La proprietà e la libertà di stampa>>, i cui atti furono pubblicati nel 2005 dalla Fondazione Corriere della Sera in un pamphlet dal titolo Sulla libertà di stampa 1945-1947, al cui interno furono riportate le diverse formulazioni dell’ articolo della Costituzione italiana sulla libera espressione del pensiero (pag.2 PDF) e l’editoriale di Mario Borsa apparso sul “Corriere d’Informazione>> del 19 dicembre 1945 con il titolo Libertà di stampa (pag.20 PDF)
(Aventino Marangoni)

 

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