Intervista di Marco Soggetto a Lucia Vastano, Milano, giovedì 19 febbraio 2009
Buongiorno, signora Vastano, e grazie per aver acconsentito a questo incontro dedicato alla sua esperienza di giornalista, di inviata all’estero, nonché nei cosiddetti “teatri bellici”.
Potremmo cominciare con una domanda introduttiva, legata appunto alla sua esperienza personale e professionale, nonché alle motivazioni che l’hanno spinta a privilegiare, diciamo, scenari..
(V): ..Un po’ particolari, mettiamola così?
Ecco, scenari sicuramente molto particolari.
(V): Bisogna dire che io ho iniziato a viaggiare sin da piccola. A tredici anni.. Sono andata in Inghilterra e quindi negli Stati Uniti, per apprendere l’inglese. E poi, diciamo, ho sempre avuto una forte passione per lo scrivere, per il giornalismo, per cui l’approccio tra il cosiddetto giornalismo “di guerra” e quello che era il mio sogno per il futuro è stato quasi inevitabile. Voglio precisare che, avendo cominciato a viaggiare sin da piccola, non ho mai subito il trauma dell’essere “altrove”, anche se naturalmente i primi viaggi sono stati difficili. A sedici anni sono stata in India, e chiaramente l’India a quell’epoca era un Paese molto più arretrato di come lo si può trovare adesso; ha avuto circa quindici o vent’anni di impulso modernista, ma in quei tempi era ancora, possiamo ben dire, l’India del periodo colonialista.
E’ stato indubbiamente traumatico, avendo solo sedici anni, però tramite questo viaggio in India si è sgretolato il mio muro della diffidenza, della paura, dell’idea di accedere ad un posto misterioso e minaccioso. Per cui devo veramente dire che, avendo viaggiato sin da ragazzina, mi sento a casa dovunque, nel mondo. E che ho imparato a considerare il “diverso” come uguale a noi, senza vivere veramente queste barriere di carattere politico, economico, religioso, vivendole insomma solamente nella misura in cui io parlo con te e tu sei diverso da me, parlo con un altro ed abbiamo ovviamente idee diverse. Però, il modo in cui ci si relaziona una volta superata la sensazione della reciproca diversità, è unico: e questo posso asserirlo dopo averlo sperimentato sulla mia pelle.
Perché in tutti i posti del mondo, bene o male, la gente ha gli stessi sogni, le stesse aspirazioni, le stesse voglie di vivere una vita serena, che vengono poi turbate da circostanze ambientali. Se tu prendi un afgano o un iracheno, piuttosto che un bosniaco, i sogni ricorrenti sono: per i genitori, tirar su i figli nel miglior modo possibile. Le madri penseranno a come e cosa cucinare; i padri, il più delle volte, ad avere un buon lavoro per portare il cibo in tavola. Penseranno quindi al problema del lavoro, al problema delle medicine, del freddo, della fame e della sete: e queste sono le vere e grandi battaglie quotidiane, molto più importanti di quelle combattute con i razzi, con le bombe.
Perché credimi, la prima e grande guerra non è quella dei missili. C’è tutta una cinematografia.. Una visione distorta che ci porta a credere che, in alcuni posti del mondo, la guerra sia uno stato abituale. Una visione che avevo anch’io, essendo nata in una generazione successiva alla Guerra mondiale: un’idea che mostra la guerra come una pioggia di bombe che continuano a cadere, di soldati che si scontrano, di atti d’eroismo e di coraggio, di vigliaccheria..
Certo, capisco.
(V): In realtà non è così. Se tu vai in un Paese sconvolto da un conflitto, la prima preoccupazione quotidiana per la gente, madri e padri, consiste nell’alzarsi la mattina e rimediare il cibo, l’acqua e le medicine per i propri figli e per la propria famiglia. Cioè, mi spiego: anche in periodo di guerra, il problema delle bombe è come una spada di Damocle che, da un momento all’altro, può irrompere in questa vita – tra virgolette – normale. Non è una situazione vissuta attimo per attimo, a parte naturalmente i momenti più topici di una certa storia; ma anche se tu vai in piena Palestina, a Gaza, nei periodi peggiori, coesistono i momenti in cui piovono razzi ed i momenti in cui le strade sono piene di bambini che giocano, di gente che si muove, di mercati affollati. Altrimenti come si spiegherebbero, a Sarajevo, le stragi del mercato? L’occidentale suppone erroneamente cose del genere, come a dire, “C’è la guerra, non ci sarà certo il mercato”. Questa è un’immagine sbagliata: la guerra, a mio avviso, consiste in tante ore di situazioni normali, in cui la gente vive o sopravvive in modo più o meno simile al nostro, intervallate purtroppo da questi sprazzi di abominio rappresentati da bombe, proiettili, e così via.
Ho capito. Una sorta di “normalità” all’interno della guerra.
(V): Io penso però che descrivere la guerra solamente in base a questi atti, a questa occasionale violenza, ci allontani molto dalla vera e piena comprensione della realtà bellica. Ci offre l’idea che queste popolazioni sfortunate siano da sempre abituate alla guerra, come a dire: “Tu vivi sempre così, e quindi ti abitui..” Mentre non è affatto vero, perché la normalità quotidiana che si percepisce in Iraq, a Kabul come in tutti i posti del mondo travagliati dalle guerre è esattamente uguale alla nostra. E’ questo, secondo me, che si dovrebbe raccontare a proposito delle guerre: la disperata necessità di condurre una vita normale, resa più difficile dallo stato di ostilità.
In questo io critico molto i miei colleghi che tendono sempre a drammatizzare situazioni di per sé già drammatiche, ma che dovrebbero essere ben inserite in un contesto, proprio per capire cosa sia la guerra. Perché se tu, giornalista, parli sempre e soltanto della Palestina come territorio su cui piovono bombe e missili, il tuo pubblico si convincerà presto che in Palestina piovano sempre e solo bombe e missili, che ci siano sempre morti, e che quindi quella popolazione sia di conseguenza abituata a questo terribile stato di cose. E che quindi il dolore che provano loro non possa mai essere paragonabile al dolore che potremmo provare noi, cosa che non è vera, perché la vita delle famiglie è normale, turbata da questi terribili episodi.
La grossa difficoltà, quando torni, consiste nel vedere colleghi che si appuntano medaglie per aver visitato fronti terribili. In realtà sono fronti più “facili”, dove due soldati si sparano: per me il vero fronte è quello della gente, delle famiglie che si sforzano di sopravvivere. Perché non puoi rinunciare ad avere l’acqua, il cibo, l’elettricità per scaldarti d’inverno o per avere un frigorifero che funzioni d’estate. Queste sono le vere violenze della guerra, non solo gli episodi di combattimento e morti amamzzati: è più importante raccontare queste guerre nascoste, che fanno molte più vittime.
Può farne un esempio specifico?
(V): Ma certo. Per esempio, pensiamo ai Talebani ed alla guerra che ne è scaturita: c’erano sicuramente innocenti che saltavano sulle mine, donne, bambini ed anziani, ma c’è stato anche uno scempio nascosto. Da tre anni persisteva una forte siccità, ed i bambini morivano come mosche per la sete. E di questo si è parlato molto poco; si sono schierati eserciti per combattere la guerra e cacciare i Talebani, ma non si è pensato ad inviare eserciti, tra virgolette, per aiutare questa gente a non morire di fame e sete. L’idea di raccontare un fronte, per me, è soprattutto questo, perché le guerre sono queste.
Una domanda, come dire, etimologica: lo scorso anno il suo collega di Mediaset, Toni Capuozzo, aveva deprecato l’uso e l’abuso del termine giornalista di guerra, come ricorderà.
(V): Certo, ricordo.
Vorrei dunque sapere cosa ne pensa di questo termine, dal suo punto di vista personale.
(V): La cosa si raccorda con quanto dicevamo prima. Il giornalista arriva nel posto “di guerra” quando ci sono le bombe; prima, sembra che non gliene freghi assolutamente niente. Ho visto, e potrei farti dei nomi!, casi di persone che partono senza conoscere la realtà in cui si va, e che vi atterrano con una percezione falsata della realtà. Inoltre vi arrivano sempre dopo la CNN, quindi, dopo che il tale conflitto è già stato riconociuto come tale a livello internazionale, a livello americano. E che nessuno è andato sul posto prima, quando si poteva intervenire politicamente o con aiuti di vario tipo, per eliminare le situazioni conflittuali; questo non viene mai fatto, i colleghi arrivano sempre dopo. In Afghanistan sono arrivati al tempo dei Budda di Bamiyan, situazione orribile, che però ha nascosto il massacro – proprio a Bamiyan – di quattrocento hazara, e nessuno ne ha parlato.
Oppure, i Balcani, guerra dimenticata fino alla strage del mercato di Sarajevo, che ha richiamato la CNN: prima – lo dico perché io l’ho seguita sin dall’inizio – se tu giravi per vendere un servizio in merito a questa guerra, per capire cosa stesse succedendo, ti rispondevano che di questa guerra non fregava niente a nessuno, perché non vi era del petrolio. Mentre lì c’erano delle altre motivazioni politiche internazionali per cui era meglio soprassedere, non parlare troppo.
Ci sono guerre dimenticate. Nel Congo ci sono stati cinque milioni di morti!, e quindi diciamo che il giornalista arriva nel momento in cui il conflitto è già scoppiato. E deve fronteggiare la CNN che dispone di mezzi economici incredibili, e deve affrontare un territorio sconosciuto, che gli oppone rischi, difficoltà ed incomprensione totale.
Io adotto una strategia completamente diversa. Cerco di andare nei posti in precedenza, creandomi una rete di persone e di conoscenze, in modo che, se dovessi tornare in un periodo più cruento, potrei disporre di una rete che mi permetta di lavorare con molta maggior facilità, e con più sicurezza. Ed intrattengo rapporti di amicizia; si dice che il giornalista non debba essere coinvolto, ma io penso che tu non possa essere un buon giornalista senza essere coinvolto. Non nel senso di schierarsi da una parte o dall’altra, bensì nel senso di provare compassione per le storie che tu stai raccontando; se non te ne frega niente, è meglio stare a casa.
Eppure anche qui ci sono giornalisti, e potrei farti dei nomi, che scrivono “Povera gente”, di qui e di là, ma che poi vengono a dire a chi lavora in un modo differente “Ma tu sei matta ad andare a mangiare con quella gente”, “Ti prendi un sacco di malattie”, “Non ti puoi fidare”, e così via. Questo capita su tutti i fronti. C’è gente che ha il gusto dell’orrido, soprattutto tra i fotografi: persone che vanno negli obitori a fotografare i morti, o che sollevano le coperte a bambini con le piaghe per farne le foto. Questo è un brutto atteggiamento, insomma; c’è tanta gente preparata che lavora bene, ma c’è tanta altra gente che si sistema in albergo, ingaggia colleghi locali, li manda in giro e si fa portare tranquillamente le notizie. Oppure che ne frega addirittura i pezzi, tanto, chi vuoi che in Italia legga un pezzo scritto da un afgano o un iracheno; ed anche questo va detto.
Capisco.
(V): A mio avviso, non puoi andare a fare il cosiddetto giornalista “di guerra” se non hai mai sentito la passione di partire, scoprire i posti, i luoghi in esame, se non hai mai avuto interesse ad un approccio “diverso” con persone “diverse”, come dicevamo prima. Perché senza di questo non puoi intraprendere questo lavoro; e ripeto, i veri fronti sono fame, sete, mancanza di medicine, le vere guerre. Lo garantisco, sono guerre molto crudeli; e ce ne sono anche qui in Italia. Io ho seguito il dopo Vajont, la storia dell’amianto, ed anche queste sono guerre non raccontate, combattute da veri eroi sconosciuti, che cercano giustizia ma sono completamente isolati e lasciati soli.
Oramai, definirsi un giornalista di guerra… Molti si mettono la medaglia d’oro, al valore!, aggiornano i loro curriculum, ma senza una vera conoscenza del territorio. E quindi senza alcuna comprensione; se non hai visto un Paese in un momento di normalità, come puoi descriverlo in guerra? Sarebbe come scrivere di una persona che hai incontrato in un letto di ospedale: tu la vedi debole, confusa, la senti dire cose sbagliate per rabbia e disperazione, ma non sai chi fosse prima quella persona. Non puoi saperlo se non l’hai conosciuta prima, se non hai voglia di andare a capire chi fosse veramente; e questo viene fatto raramente, perché preferiamo tirare giù le saracinesche, fermarci sulle nostre certezze e non metterle mai in discussione.
Concordo, in effetti. Mi può fare qualche esempio?
(V): Esempi di realtà inesistenti, descritte anche se c’è una documentazione filmata che dice altrimenti? Mi ricordo un Porta a Porta con Bruno Vespa, dedicato alla guerra in Afghanistan, appena finita quella guerra… Scorrevano le immagini e c’era questa discussione, non ricordo tra chi. C’era la parte pro e la parte contro la guerra; chi era contro sosteneva che non si dovesse andar giù a combattere, gli altri sostenevano di aver liberato le donne afgane dal burqa, gli oppositori commentavano “Si potevano liberare in qualche altro modo..”
Dietro scorrevano le immagini, e le donne erano tutte con il burqa. Per cui ci creiamo una realtà che esiste soltanto nella nostra testa, e finiamo pure con il crederci. Un altro esempio. Sono amica del nipote di Gandhi, e ricordo quando s’era aperta la questione dell’atomica indiana: tutti i telegiornali ed i giornali mostravano le manifestazioni dei nazionalisti indiani che inneggiavano alla bomba atomica. In realtà erano un manipolo di persone, in un Paese che vanta più di un miliardo di abitanti, e quindi la riflessione sarebbe questa: in un Paese così enorme, metter lì cinque o diecimila persone non è un problema, non è nemmeno il numero di spettatori di uno stadio, non so se mi spiego.
Perfettamente.
(V): …Quindi se tu vai lì, con la televisione, e riprendi la folla per dire “L’India gioisce per la bomba atomica”, sembra che siano tutti lì ad esultare.. Mentre in realtà ai più non ne fregava proprio niente, perché hanno ben altri problemi cui pensare. Altri ancora non erano d’accordo con i nazionalisti, e così via. E dare invece quest’idea ingannevole alimenta tutta una serie di atteggiamenti, pro e contro, quando in realtà le vere guerre riguardano ben altre situazioni, che oltretutto potrebbero essere superate con facilità. Perché ad esempio portare acqua ai bimbi afgani è molto più semplice che andare a scovare il mullah Omar o bin Laden, capisci? Io mi chiedo perché si faccia una cosa ma non si cominci nemmeno l’altra, e la si dia in mano a delle organizzazioni di buona volontà, quando a volte la buona volontà non basta.
E siamo sempre lì, infatti: scoppia la guerra in Afghanistan e subito arrivano insieme ad una marea di giornalisti, ad una marea di grandi organizzazioni come le Nazioni Unite, altrettante piccole organizzazioni – diamo loro il beneficio del dubbio – di buona volontà, ma senza conoscere il territorio, che spesso fanno più danni che bene. Per cui ripeto che se si vuole intervenire su un territorio occorre conoscere la realtà locale, e disporre di una rete di partecipazione sul territorio. Arriva da fuori e pensare, sulla base di soldi e mezzi, di poter far qualcosa, è un concetto pericolossismo, come ho constatato in ogni occasione; perché i soldi portano al banditismo, alle mafie locali, a chi se li mette in saccoccia, alle guerre tribali che scoppiano per accedere a quel denaro, e così via. E’ la storia della guerra nei Balcani, sulla porta di casa nostra; la cosa è questa, avrebbe senso definire il giornalismo “di guerra” se questo individuasse le vere guerre, cosa che a mio giudizio non si fa. Definire che cosa è guerra e cosa no, è già frutto di una selezione.
Capisco la sua posizione. Allora possiamo forse assumere che il giornalista freelance possa recarsi più liberamente in certi Paesi quando ancora si trovano in tempo di pace, e di conseguenza fanno meno notizia, rispetto al collega di un giornale o telegiornale, che invece vi verrà inviato solamente allo scoppiare del conflitto.
(V): Mah, guarda, il collega del giornale secondo me non ha scusanti, perché ha tutte le convenienze a fare un certo tipo di ragionamenti.Non tutti, per carità, ci sono persone.. Diciamo però che il giornalista del giornale cavalca l’onda; a volte cerca di far pressioni per potersi recare in altri posti, ed a volte ci riesce anche, a volte no… Però diciamo che di fatto si crea una specie di gerarchia, alimentata dai colleghi interni, che fa del freelance un prodotto di serie B. E questo è colpa dei giornalisti: se tu arrivi in un posto e dici “Sono del Corriere della Sera” oppure se dici “Sono un freelance, e lavoro per..”, tra giornalisti ci si tratta in modo diverso. Non so se mi spiego, ma questa è veramente una colpa del giornalista del Corriere della Sera, di Repubblica, del Manifesto e di pincopallo.Perché lavorando così, si finisce con un pensiero unico; la cosa che dico è che il giornalista freelance ha più possibilità di andare nella misura in cui abbia il denaro per farlo.
Succede a volte che il giornalista freelance vada in certi posti, facendosi un mazzo quadro!, e poi venga immediatamente sciacallato dai giornalisti dei grandi giornali o delle grandi reti, che magari rubano le cose che sono state fatte, o magari rubano il sapere creato nel corso di anni. E parlo anche di guerre locali, perché in Italia ci sono situazioni che sono delle vere guerre.
Ti dico, personalmente, miei pezzi e mie cose sono state sciacallate più di una volta, ma non è questo che mi importa: la cosa che mi interessa è che, secondo me, ci debba essere una pluralità di informazione e che ciò presupponga che anche il giornalista freelance venga pagato adeguatamente. E questo ormai i giornali non lo fanno più; e non c’è nessun sindacato, nessun corpo giornalistico e tantomeno i giornalisti interni che capisca l’esigenza di proteggere il lavoro e la professionalità del freelance. Perché c’è questa distinzione, perché il giornalista freelance viene visto come quello da sottovalutare, ed è un grande problema.
Il freelance può contare sul fatto che, se ha un po’ di intuito, può arrivare sul posto prima di tutti gli altri, o comunque ad instaurare legami con il territorio che gli permettano di lavorare. La grande firma, il grande giornalista, con la scusa dei soldi si appoggia al freelance… Non so se mi spiego, ma esiste un certo sciacallaggio, che a mio giudizio non è cosa corretta, mi capisci. Sarebbe proprio da reimpostare la visione del freelance, che non è un sottoprodotto o uno che non ha trovato un lavoro: a volte si è freelance per convinzioni professionali, perché io faccio la mia strada, faccio un mio percorso che non necessariamente non corrisponde a quello di un giornale. Può invece corrispondere a quello di tanti giornali, per cui io decido che non voglio sottostare ad un’unica cosa; allora si può dire sono disposto a pagarti un prezzo giusto, nel senso che se il mio lavoro è altamente professionistico, io voglio che questo valore sia riconosciuto.
Mi pare doveroso. Le chiedo quindi la sua opinione sul giornalismo di guerra italiano contemporaneo, e magari, quali ne sono state le firme, i nomi, che hanno maggiormente segnato la sua formazione, la sua esperienza personale.
(V): Allora, devo dire che ho avuto una formazione abbastanza atipica. Come ti dicevo, ho iniziato a viaggiare da piccola, e ho avuto un percorso professionale completamente atipico: mi sono costruita una mia professionalità che non ha avuto molti riferimenti, ho seguito una mia traccia, una mia pista, e tuttora faccio così. Non mi è mai piaciuto avere miti, maestri, in testa: ci sono dei colleghi che rispetto profondamente, e con i quali mi è piaciuto confrontarmi, però per dirti la verità non ho un Montanelli che mi abbia ispirata. Sia come mio modo di essere, sia per il fatto di essere una donna: perché l’essere una donna che fa questo lavoro, ed una donna che è professionalmente nata al di fuori dei giornali, mi ha portato a costruire un mio percorso. Non ho riferimenti con nessuno: io vado per la mia strada, mi son fatta i miei rapporti, le mie cose, e seguo questa traccia, pur nel rispetto e nella stima che nutro per molti colleghi.
Una domanda più operativa, diciamo: quali sono le modalità di lavoro adottate da un giornalista freelance in una zona di guerra, rispetto a quelle di un inviato accreditato?
(V): Il freelance fa tutto da solo: si organizza i viaggi, si compra il biglietto, si preoccupa dei propri soldi, e via dicendo.
Ciò vale anche per i permessi, gli accrediti?
(V): Accrediti, tutto.. Diciamo un’altra cosa. E’ molto più serio lavorare come freelance avendo però un assignment di un giornale. Trovo poco serio andare, dire “Io parto!”, andare alla guerra, dicendo “Poi quando torno vediamo”: non la trovo una cosa professionale. Posso andare lì, ma per conto mio, non alla ventura; bisogna sempre lavorare su un progetto, non come turista, non ritraendo quel che vedo. Ognuno deve seguire una propria pista; se vai a caso, torni e magari quel che hai raccolto non interessa a nessuno. La mia esperienza insegna che è molto meglio farti accreditare da un giornale, anche perché agevola i permessi, specie se lavori con le Nazioni Unite, con la Croce Rossa, e comunque dopo un po’ che lavori nel settore trovi sicuramente qualcuno che ti fornisca un accredito. L’importante è partire con un progetto, non a capocchia; poi se là succedono altre cose, ben venga. Ma è assurdo dire “Vado in Afghanistan a seguire la guerra”: prima di tutto, dove vai? Vai a Kabul, a Herat, a Kandahar, dove vai? E’ il difetto delle cose all’italiana, gente che parte come se andasse a fare una passeggiata. Bisogna avere idee molto chiare, un progetto; se poi una volta che sei lì inciampi in cose che ti interessano, o ti accorgi che il tuo progetto iniziale è irrealizzabile, segui qualcos’altro. Questo vale anche per i fotografi freelance. Purtroppo, poi, parti con un assignment ma le cose che ti interessano sono altre; allora prima sviluppi il tuo assignment e poi pensi alle cose che ti interessavano maggiormente, questo è chiaro, è la storia della vita di un freelance. Io so cosa posso vendere, e so a cosa saranno maggiormente interessati i giornali, i caporedattori, e che magari a me non interessa; cerco un giornale che possa coprire le spese e che voglia guadagnare con un argomento preciso, e cerco anche giornali di nicchia disposti a pubblicare argomenti ai quali io sono interessata.
Purtroppo, oramai la situazione è semplice: tutti i giornali vogliono esattamente le stesse cose. E questo secondo me è grave; se tu vedi tu tutti i telegiornali le stesse identiche cose, si crea il pensiero unico. Uno può poi essere d’accordo o meno… Ma la vera differenza non consiste in come la pensi tu o come la penso io riguardo un tema, bensì nella scelta di cosa trattare; questa è la vera differenza, la vera “censura”. Se io decido di parlare cento ore del processo di Cogne e niente della guerra in Congo, compio una scelta; ma è al contempo una cavolata. La grande alternativa non consiste nell’avere un’opinione diversa su Sanremo, su Cogne, sul Grande Fratello etc., bensì nell’occuparsi di altre cose. E purtroppo, se vai a vedere la gerarchizzazione delle notizie nei telegiornali, è uguale, uguale.
Un esempio?
(V): Vediamo, si parla di crisi economica. La questione del salvataggio delle banche statunitensi. Si è parlato di 1700 miliardi di dollari per salvare le banche, banche che tra virgolette avevano fregato!, no, e nello stesso periodo si chiedevano 72 miliardi per salvare… Per essere sulla buona strada verso la sconfitta della fame, della morte di parto delle donne, dei problemi di analfabetismo, il problema della sete, l’accesso alle medicine. Questi soldi non si sono trovati, e nessuno ne ha parlato. E questo argomento meritava i titoli in prima pagina per trenta, quaranta giorni, come si è fatto per l’argomento bancario.
“Fare opinione” secondo me non vuol dire solo avere idee diverse circa un argomento, significa discutere, parlare, di cose che non tratta nessuno. Dicevamo prima dei fronti di guerra: sono in realtà le guerre che vengono scelte per noi. C’erano i bambini soldato della Sierra Leone, tutta una serie di conflitti trascurati.. L’Africa non esiste: non si parla mai dell’Africa. Oggi si parla della crisi economica, ma dove si trova, dove è scoppiata? Molti Paesi dell’Asia, la Cina, l’India non ne sono stati toccati; Africa e Sudamerica avevano già una forte crisi, in precedenza. Ci sono dei Paesi che oggi sono in crisi, Paesi maggiormente industrializzati – ma non è neanche del tutto vero, perché ormai Cina ed India sono pesantemente industrializzate a loro volta – e quindi il termine di “crisi” viene esteso a tutto il mondo. Il mondo è in crisi perché lo siamo noi. Se vai in India hanno crisi interne, ma non crisi economiche: loro sono passati da una prospettiva di aumento del PIL dal 9.1% al 7 e rotti %, però, sai cosa vuol dire un PIL in crescita del 7%…
In Kashmir c’è una guerra che continua da molti anni, ormai, e se ne parla solo ogni tanto. Scoppiano le bombe a Bombay, i terroristi sono arrivati dal Kashmir, ed allora in quella occasione se ne parla. Mi dirai che non si può sempre trattare delle stesse cose: sì, però Cogne, Sanremo, si andrà avanti a parlarne per due mesi!, così come il Grande Fratello. Lì c’è una che si fa questo, un’altra che si fa quell’altro, ed ogni giorno c’è il pretesto per parlarne.
Per quanto invece concerne il rischio? Le ultime guerre, in particolare Iraq ed Afghanistan, hanno aumentato il rischio per il giornalista, secondo lei? C’è il pericolo che il futuro della pratica giornalistica all’estero venga rinchiuso nelle zone verdi, negli alberghi sorvegliati, imbrigliando di fatto la stampa?
(V): Guarda, il fattore rischio si basa su molti aspetti. Prima di tutto, una minaccia tra virgolette è costituita da Internet. Una grande opportunità, certo, però si è tentato di dire, da parte di molte redazioni, che l’esistenza di siti e blog vanifichi il lavoro dell’inviato; e questa è una baggianata grossa come una casa. Perché il lavoro del giornalista è frutto della professionalità. Il potere delle parole è grande; se parli tra amici è un conto, se scrivi in un blog, l’impatto è ben diverso. Ma non si decodifica esattamente l’impatto provocato nell’interlocutore, né le reazioni che provoca.
Un esempio in particolare?
(V): Sono state fatte delle indagini, per la raccolta fondi, per l’adozione a distanza dei bambini. Per esempio, il pubblico anglosassone fornisce fondi solo se vede le fotografie di bambini denutriti ed affamati; se tu metti le stesse foto in campagne di raccolta fondi qui da noi in Italia, non prendi una lira. Qui da noi occorrono i bambini che sorridono. Ora, si tratta di cose, di spunti che… A meno di essere un professionista della parola e dell’immagine, rischi concretamente di avere un risultato contrario all’opposto, rischi di dire l’opposto rispetto a ciò che credevi di aver detto. Tanto per dire, questo si raccorda alla convinzione di molti giornali circa Internet, ovvero che chiunque possa andare e scrivere un pezzo, cosa niente affatto vera.
Capisco. Ma quali possono essere gli altri rischi?
(V): Sussiste sempre il problema finanziario, il problema dei soldi. Ci sono giornalisti ed inviati interni che percepiscono un sacco di soldi, mentre se sei freelance, no. Succede che quando arrivano i grandi networks, come la CNN, il prezzo di ogni cosa aumenti di dieci volte; ne consegue che se tu fai parte della RAI o del Corriere della Sera puoi permettertelo, ma se sei un giornalista freelance, no. Questo è un altro rischio, ma ce n’è un altro ancora: quello che, siccome è pericoloso andare in certi luoghi, vedi le esperienze che abbiamo passato, vedi la Cutuli e via dicendo, allora il giornalista che voglia recarvisi deve andare con i militari. Embedded. Questo è un altro pericolo.
Si cerca sempre di togliere testimoni dai piedi, ma una stampa sana, ne sono convinta, sa trovare i sistemi per aggirare questo problema.
Un altro problema è legato alle novemila dirette che il giornalista televisivo deve assicurare, durante una guerra: interviste quotidiane che lo costringono a restare sempre chiuso in albergo, sempre vicino. Teoricamente bisognerebbe inviare qualcuno che giri per cercare le notizie e qualcun altro che trasmetta le dirette, ma non sempre viene fatto.
C’è infine un altro problema, ovvero la professionalità del giornalista: quando ho iniziato questa professione, all’interno dei giornali, c’erano delle scuole di giornalismo interne ai giornali. Colleghi che sapevano insegnare come si conduce questo lavoro. Oggi, non ci sono più; c’è una deprofessionalizzazione interna ai giornali che fa paura.
Solo in Italia, secondo lei, o anche all’estero?
(V): Mah… Questo succede soprattutto in Italia, però è un fenomeno che naturalmente tocca anche gli altri Paesi. Direi però che in Italia non ci facciamo mancare niente, come in tutte le cose. (Ride).
Tornando al discorso dell’embedment da lei citato poco fa. Può precisare la sua opinione in merito, per favore?
(V): No, lo vedo malissimo, malissimo… Piuttosto che andare a fare il giornalista embedded, per me, è meglio che uno se ne stia a casa. No, può servire solo se si va a raccontare come vivono i militari lontano da casa, allora sì; se questa è l’unica storia che esce, allora sì. Però naturalmente non si tratterebbe più di Iraq, Afghanistan, bensì di come vive la sua esistenza il militare; con tutto il rispetto per certi militari che fanno questo lavoro. Pur essendo pacifista, o più che pacifista, non violenta, ho visto i militari far cose… E’ il contesto ad essere sbagliato, a mio giudizio: siamo sempre al vecchio discorso, ovvero che bisogna riuscire a tenere le distanze dalle varie situazioni, e se sei embedded sei embedded, e basta. Oltretutto, se sei embedded, non puoi mettere a repentaglio la vita dei soldati che sono con te; non puoi andare a fare il cretino, andare dove loro ti dicono che è meglio non andare. Perché se sei embedded sei militare a tutti gli effetti. Se non vuoi fare quel che dicono loro, te ne stai fuori, o metti a repentaglio te e loro; è chiaro che un militare si muove in modo diverso da come mi muovo io. Se sei un militare che gira per una strada di Kabul, sei ben diverso da me che giro per la medesima strada; io sono un target in quanto straniera, ma il militare è ancora un’altra cosa, viene visto in un altro modo, non puoi metterne a repentaglio la vita. Te ne stai fuori e buona notte al secchio, secondo me.
Una domanda inerente, invece, alla censura, un argomento che mi interessa
particolarmente – la mia stessa tesi, in effetti, potrebbe essere stata intitolata Storia della censura, invece che La storia del giornalismo di guerra.
(V): Sì.
Vorrei quindi chiederle se come giornalista ha mai avuto a che fare con episodi di ostracismo o di vera e propria censura, nel suo lavoro.
(V): Guarda, ti dico, ho una storia molto atipica; per cui non equiparare la mia storia a quella di altri. India, Pakistan, la Cina.. Io conosco persone, sul posto. Se succede che scoppi una crisi in qualsiasi parte del mondo, che sia negli Stati Uniti o nel Veneto, ho contatti con il territorio; e così il mio approccio con la realtà è facilitato. Chiaro che, se arrivi in certi posti senza conoscere nessuno, ascoltando solo le parole dei personaggi ufficiali.. E se devi scontrarti con il potere dei networks più forti.. E’ chiaro, per esempio, che su un elicottero dell’Esercito italiano ci vada il giornalista della RAI, non il freelance; è raro, almeno che non si abbiano rapporti con quei militari, perché li hai conosciuti in altre situazioni, ed allora ti danno una mano. Ma se non hai aderenze con il territorio, il lavoro è quasi impossibile, se ne hai, il lavoro è molto facilitato.
La censura. E’ chiaro che ci sia chi ha tutto l’interesse a non far raccontare certe storie, ma il nostro lavoro consiste nel cercare proprio quelle storie, in Italia come in Afghanistan o in Iraq; anche in Italia ci sono tanti fronti da raccontare, non è diverso. Il discorso dell’amianto, come ti dicevo prima, o la diga del Vajont: sono tutte storie di gente che sapeva che con l’amianto si muore, che la diga avrebbe causato dei morti, e non ha fatto niente. Ti spiego: sono storie che, se approfondite, ti creano grosse difficoltà. Io sto seguendo il dopo- Vajont oramai da otto anni, e ti dico, ho avuto grossi problemi con la DIGOS e con le autorità politiche; perché ci sono cose che tuttora non vanno dette. Non sono più le storie di chi ha costruito la diga, bensì di dove siano finiti i soldi, come siano stati spesi e come siano ancora spesi, perché alcuni risarcimenti sono appena arrivati, in questi anni.
Sono insomma storie che non vanno raccontate, perché c’è tutta una rete, un sistema politico, che parte dal piccolo paese del Veneto ed arriva fino a Roma, e che è in grado di tappare la bocca a tutti; ed è chiaro che se tu scrivi un articolo o un libro su queste storie, hai problemi. E’ chiaro che ci sia censura, e che di storie come questa ce ne siano un’infinità, tantissime!, in Italia; e la gente si guarda Report, si indigna per una sera, ed il giorno dopo ricomincia tutto.
Sai, tu puoi dire tutto: puoi dire tutto… Una volta. Basta che, dopo, di questo argomento non si parli più; o che se ne faccia cenno ogni tanto. Per esempio sulla free press, di notiziole ne trovi una marea; se ti occupi veramente di una storia, secondo me, la segui dall’inizio alla fine, non la lasci per sei mesi, otto mesi, un anno. Tu quotidianamente hai rapporti con le persone che sono coinvolte; è questo che significa seguire una storia. Anche perché è come in montagna, tu ne avrai certo idea: è come parlare con un montanaro, ci vogliono due o tre mesi prima che questo prenda confidenza, prima che tu ne capisca il dialetto!, se non di più. E se ti accetta ti parla, altrimenti no. Come puoi pretendere quindi di arrivare sul posto, fare un servizio per tre o quattro giorni e pretendere di aver capito tutto: è una baggianata grossa come una casa.
Capisco.
(V): Nel momento in cui svolgi questo lavoro, in Italia o in Iraq, finisce lì; son parole che vanno nel vento. Se invece segui la storia, se hai una partecipazione attiva, sei un giornalista che infastidisce molto. Un esempio? Uno dei principali fronti di guerra italiani è, come sai, quello della camorra. Allora, una donna viene ammazzata al Vomero, anni fa, mentre accompagnava a scuola il bimbo piccolo, con la figlia che guardava dalla finestra, trovandosi in mezzo ad un regolamento di conti. Siccome lei era la cugina di Ruotolo, che al tempo conduceva Samarcanda, proprio per l’attenzione che venne data a questo fatto si riuscì ad arrivare al processo, con il riconoscimento dei colpevoli; stava per andare in prescrizione!, ma c’è stata una stampa che ha impedito che questo reato cadesse in prescrizione.
I giornali seguono la camorra, ma solo quando la camorra fa quattro o cinque morti a Napoli. Se succede, allora i giornali di tutto il mondo piovono lì: quando non muore nessuno, forse non c’è la camorra? La mafia, anche in Veneto e Lombardia, cose che la gente comune non immagina neanche, forse non c’è? In Veneto, Lombardia, Lazio – non parliamo del Lazio! -, nella Toscana, a Perugia… C’è mafia, ma una mafia silenziosa, che si accorda con politica locale ed imprenditoria, ma non se ne parla perché non “fa morti”. Ed in Italia passa, è già passata, la cultura mafiosa: specialmente nelle piccole cose. Se ti fregano motorino o macchina non lo denunci neanche, i processi non vanno avanti, e così via; la mentalità dell’avere successo, anche a costo di fregare!, perché lo fanno tutti. Personaggi del crack della Parmalat, che poi vanno in televisione a fare i simpatici; e sappiamo bene a chi mi riferisco. Anche far passare Striscia la Notizia come il programma d’inchiesta.. Non puoi ridere di qualcuno di cui ha fatto un crack simile, che ha portato gente al suicidio, a star male, e mostrare questa stessa persona in televisione mentre canta una canzoncina. Con la gente che intorno gli dice “Lei è un lazzarone”. E noi li abbiamo chiamati furbetti del quartiere, ma sono criminali, non furbetti: in America sarebbero all’ergastolo!, mentre furbetto significa solo che non sono stati abbastanza furbi da non farsi prendere, nel qual caso vivrebbero come prima.
Come nel caso dello scandalo Enron.
(V): Ecco. Per cui, ecco cosa auspico quando parli di “giornalismo di guerra”: queste sono guerre, da combattere, e sono proprio qui nel nostro Paese. Non puoi pensare d’essere un giornalista che va a far la guerra, poi quando è in patria se ne frega di queste cose; non puoi andare ad una guerra dall’altra parte del mondo senza accorgerti di cosa succede sotto casa tua. Dovremmo anche cominciare a discutere sui termini: “di guerra” implica che vai a parlare di guerre di cui si vuol sentir parlare, morti e bombe, ma negli altri casi? Ecco il limite di queste cose.
Una domanda più logistica, diciamo. Le comunicazioni, la navigazione, le moderne tecnologie satellitari. Il suo parere?
(V): Guarda… Internet, e- mail, i satellitari, hanno cambiato nettamente la vita. Una volta si andava in un posto per lavoro, e poi dovevi telefonare o spedire il pezzo, qualcuno doveva portarlo a mano. Questi nuovi strumenti, chiaramente, hanno facilitato moltissimo la vita di un inviato, così come hanno facilitato la vita di ognuno di noi. Io ho rapporti quotidiani con gente che risiede in India, in Afghanistan, in Iraq… Ci si scrive via e- mail, oppure posso telefonare ad un abitante di Gaza e chiedere informazioni, il che prima era impensabile. Ricordo i miei primi viaggi in India, da ragazzina, e ricordo che solo per telefonare in Italia buttavi via una intera giornata, perché dovevi andare all’ufficio delle poste e telegrafi, star lì per la prenotazione, poi vedere se la linea prendeva.. E non è che io ti stia raccontando di cinquand’anni fa!
Adesso, in villaggi dove non è mai arrivato il telefono, ci sono i satellitari. C’è Internet. Io porto il mio portatile, ho Skype, e parlo tutto il mondo da dove mi trovo; una volta Capuozzo doveva portare delle parabole enormi, era una cosa incredibile.
Detto ciò, il GPS, il TomTom, per me sono baggianate totali. Per i militari in primis, perché poi si perdono; perché secondo me, in certi posti, occorre avere legami con il territorio. Se tu prendi un locale che ti faccia da guida, sarà molto più preciso rispetto a qualsiasi metodo tecnologico.. Anche se è fuori da ogni ombra di dubbio che la tecnologia abbia aiutato molto.
Ho comunque assistito a cose pazzesche. Colleghi che, in mezzo al deserto, in situazioni di guerra, e telefonano “Ah, son qui, sto guardando la luna..” Il che distrugge la magia, non esiste, se sei in un posto simile, vivitelo al cento per cento!, che bisogno hai di raccontare subito della luna che sta calando dietro ad una duna del deserto, anche al tuo grande amore: viviti il momento e quando tornerai a casa potrai raccontarlo. O gente che all’improvviso si mette ad urlare “Non c’è campo, non ti prendo, mi sposto..!”, ma stattene a casa!, mi spiego?
Certo.
(V): Per me, veramente, il mondo è la mia casa. Però ci sono delle situazioni in cui voglio gustarmi appieno la distanza, e se non riesci a gustartela, vuol dire che sei ancora a casa, non so se mi spiego. Il rischio di queste tecnologie è questo, il rischio di crearsi una propria cuccia, come all’Holiday Inn o all’Hilton: sei a New York e ci vai, a Bangkok e vai lì, trovi lo stesso cibo, le tende dello stesso colore, ti senti come se fossi sempre a casa. Però, il bello del viaggio è capire e sapere di trovarsi in un’altra realtà.
Però, ripeto, dal punto di vista pratico è bellissimo.
Ultima domanda, le sue prospettive sul futuro del giornalismo di guerra nei prossimi anni.
(V): Gli sviluppi, intendi?
Sì, gli sviluppi, la sua probabile evoluzione nel breve e medio periodo, diciamo.
(V): La cosa che sostengo è semplice. Penso che tutti gli esseri umani in tutto il mondo siano fondamentalmente uguali, come dicevo all’inizio. Se parlo con un iracheno, un afghano, un indiano, un abitante del Bhutan, se ci incontriamo, dopo un po’ non mi ricorderò da dove venga questa persona: subentrerà la normale curiosità nei confronti di una persona che non conosco. E questo, secondo me, significa essere uguali. Però è anche vero che io per prima non avrei mai pensato di vedere un McDonald’s a Nuova Delhi o un Pizza Hut a Kabul; adesso ci sono. Questa è la difficoltà, l’illusione di estendere la nostra cultura unica in tutto il mondo, che siano loro a doversi abituare alla nostra cultura, che si possa pretendere di ricevere quel che vogliamo. Questo lo si diceva degli americani, una volta, che volessero mangiare al McDonald’s in ogni parte del mondo; adesso è una brutta abitudine che si è estesa a tutti, perché tutti siamo stati colonizzati da questa mentalità. Il rischio è perdere la sensibilità di scoprire le differenze culturali tra le persone, di non rispettare o dare dignità a culture differenti dalla nostra.
Per esempio, nei Paesi dell’Asia, i bambini sono felici e giocano per strada. Qui da noi i bambini non li vedi neanche più. Basta girare per le strade di Milano, vedi solo i bimbi di tre anni per mano alla madre, ma i ragazzini intorno ai dieci anni sono spariti; quando ero piccola io, scherzi!, era diverso.
Bisognerebbe insomma vedere dove ci abbia portato il progresso, e chi lo abbia pagato; un bambino che in una così bella giornata passa il suo tempo davanti al computer, ha sprecato la sua giornata, tu lo sai bene, pensa alla montagna…
Perfetto, ho capito e la ringrazio.
(V): Esauriente, come intervista, direi, no?
Sono d’accordo, una bella intervista. La ringrazio sinceramente per il suo tempo.