Il museo Diocesano di Milano espone, fino al 13 ottobre, le foto di Robert Capa, una retrospettiva che abbraccia 22 anni di lavoro, dal 1932 fino alla prematura morte avvenuta nel 1954.
di Carlo Rotondo
Una mostra completa di tutte le fasi principali del fotografo in un allestimento che ricorda il labirinto delle trincee di guerra, accompagnata da un esaustivo catalogo dall’ampio formato, tale da poter apprezzare a tutta pagina le foto.
Il periodo durante il quale svolge il suo lavoro è importante per la storia mondiale e Capa, instancabile girovago, vive con intensità gli anni tra la guerra civile spagnola e la liberazione del continente europeo dal nazismo; è presente sui fronti e sulla prima linea dei combattimenti a Occidente, dalla Normandia alla Sicilia, da Pargi a Berlino, ma punta l’obiettivo della fotocamera anche sulla vita dei civili nelle città, tra le vittime principali del secondo conflitto mondiale, e in entrambi i casi non cerca il gesto eroico e l’azione esemplare, ma la paura, l’attesa, la speranza; John Steinbeck diceva di lui che “poteva fotografare il movimento, l’allegria e lo strazio. Era in grado di fotografare il pensiero….Capa sapeva che non si può fotografare la guerra, perché si tratta per lo più di un’emozione”.
Endre Friedmann
Ungherese di Budapest, il suo nome alla nascita è Endre Ernö Friedmann, si rivela piuttosto irrequieto da bambino e incline a mettersi nei guai, ancora adolescente finisce in carcere per la sua fede comunista; uscito di prigione preferisce cambiare aria e abbandonare Budapest.
A Berlino lavora da apprendista presso l’agenzia fotogiornalistica “Dephot”, nata grazie all’intuito dell’intellettuale tedeco Simon Guttman e attorno all’idea di realizzare reportage fotografici di documentazione. Nel 1932, a soli diciannove anni, è inviato a Copenaghen a coprire una conferenza tenuta da Lev Trockij agli studenti danesi sulla rivoluzione russa; il leader comunista è in esilio dal ’29, braccato dalla polizia segreta di Stalin è pertanto vietato fotografarlo per salvaguardarne l’incolumità. Le condizioni proibitive non scoraggiano Endre che riesce a scattare un intero rullino con una 35 mm e grazie alla posizione e alla scelta del punto di ripresa porta a casa il risultato; sarà questa la prima lezione che imparerà sul campo: “se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino” e Capa applicherà con rigore questa regola fino alle inevitabili conseguenze per chi come lui si muoveva sui teatri di guerra.
PARIGI
Tuttavia, per un ebreo, e per di più comunista, Berlino comincia a essere inospitale; Endre non si sente al sicuro e dopo un breve soggiorno a Vienna, approda a Parigi dove grazie alla presenza in città di intellettuali e artisti provenienti da tutto il mondo è al culmine una stagione di grande creatività culturale. A Parigi, Endre conosce Gerta Pohorylle, di Stoccarda e come lui, ebrea e comunista. Anche Gerta è stata in carcere per le sue idee politiche e per vivere lavora come segretaria e dattilografa presso l’agenzia fotografica “Alliance-Photo”; la stampa rotocalco, inventata alla fine del secolo passato dal boemo Carl Klietsch, esalta le immagini fotografiche i cui dettagli risultano nitidi e definiti. La diffusione della fotografia si sviluppa ulteriormente a partire dagli anni ’30 del ‘900 grazie ai nuovi apparecchi fotografici di piccole dimensioni, dotati di flash incorporato, messi in produzione da Leica e Contax, che consentono lo scatto delle istantanee, appunto perché assecondano l’itineranza dei fotografi non più costretti al trasporto di pesanti e ingombranti attrezzature; le foto adesso riescono a cogliere al volo l’espressione sui volti della gente, il loro stato emotivo e consentono al fotografo un rapporto empatico col soggetto. Endre insegna a Gerta i rudimenti sulla fotografia e insieme lavorano e percorrono a piedi tutta la città fin dalle prime luci del giorno a caccia di immagini interessanti da vendere ai giornali. Sono gli anni di formazione del Fronte Popolare e l’atmosfera effervescente che si respira in città offre situazioni interessanti per giornalisti e fotoreporter; i partecipanti ai comizi dei partiti nutrono molta speranza in un domani migliore e Capa ne coglie lo spirito sui loro volti: “Elezioni legislative in Francia del 1936”; “operai in sciopero”; “Balli per le strade” il 14 luglio del 1936 a Parigi; “manifestazione pacifista”; Leon Blum e i leader politici progressisti nell’anniversario del 14 luglio del 1937.
GERDA SI INVENTA CAPA
In America già da tempo la fotografia sociale si è affermata con autori come Jacob Riis, Lewis Hine, Dorothea Lange, Walker Evans, Arnold Genthe, da qui l’idea di Gerta, per incrementare l’attività, di fingersi lei e Endre fotografi inviati da un’agenzia americana. Per i nomi lei si ispira a due dei suoi beniamini: l’attrice Greta Garbo e il pittore Tarō Okamoto e crea l’appellativo Gerda Taro; Endre, da adesso in poi Robert, recupera il nomignolo col quale veniva chiamato da bambino, Capa, in ungherese lo squalo. Lavorano a diretto contatto con la scena principale, fisicamente addosso al soggetto da riprendere, sempre in azione. La sera sviluppano in camera oscura i loro lavori, il più delle volte indistinguibili.
LA GUERRA CIVILE DI SPAGNA
Ad agosto del 1936 Robert e Gerda partono per la Spagna dove è cominciata la guerra civile, lasciano i paesaggi urbani e le manifestazioni operaie della città per scenari di guerra ai quali forse non sono abituati, occorre sapersi muovere e proteggersi mentre si ha l’occhio sul mirino. Capa, al loro arrivo sul fronte di Cordova, scatta la sua foto forse più famosa e controversa: “morte di un miliziano lealista”; nella mostra sono esposte, in una sorta di piano sequenza, le foto che riprendono gli attimi precedenti con i miliziani che saltano la trincea; foto scattate quasi senza neanche inquadrare nel mirino, non c’è il tempo, occorre sviluppare la capacità di intuire il movimento dei soggetti che si hanno davanti e “vedere” la foto prima che la scena si materializzi.
La guerra civile spagnola è considerata dagli storici militari un laboratorio per la sperimentazione di nuove tecnologie e tecniche di combattimento, applicate pochi anni dopo su larga scala nella seconda guerra mondiale. Anche per il foto-giornalismo fu una svolta grazie alla coincidenza di diversi fattori, fino ad allora le foto di guerra erano statiche, soldati in trincea, in posa davanti ad apparecchi poggiati su pesanti treppiedi e tempi lunghi di esposizione; viceversa, le nuove tecnologie di ripresa, lo sviluppo della stampa rotocalco, la pubblicazione sempre maggiore di riviste illustrate a larga tiratura, costituiscono un banco di prova di un nuovo modo di fotografare i soggetti in movimento e cogliere l’espressione dei loro volti e dello stato d’animo che li attraversa.
Le foto di Capa e di Gerda Taro sono richieste da Vu, Paris Match, Life, ritraggono la gente delle città bombardate con lo sguardo rivolto in alto nell’angoscia dell’attacco imminente dal cielo, l’evacuazione degli sfollati verso le campagne; “soldati repubblicani affacciati sorridenti sul treno in partenza per il fronte aragonese”; la corsa al rifugio durante l’allarme antiaereo. E anche quando Robert e Gerda vanno al fronte e sono in trincea insieme ai soldati che difendono la repubblica, colgono gli sguardi, l’attesa dello scontro, il riposo tra le linee, la polvere che si alza nella corsa incontro al nemico. Immagini che ci restituiscono in maniera vivida gli eventi, il fotografo è dentro, parte egli stesso della scena che ritrae, non c’è più distanza, separazione. È un lavoro faticoso e pericoloso, Gerda è sfinita, seduta a terra, si appoggia a una pietra, ma un attimo dopo, è ancora lei, di nuovo in prima linea alle spalle di un miliziano, entrambi protetti dagli spari che arrivano loro addosso.
Le loro foto sono un documento diretto, una fonte primaria per gli storici. Un’immagine fra tutte, è Capa a scattarla durante un reportage a Verdun, in Francia, nel luglio del 1936, dove un corteo di cittadini tedeschi con il vessillo nazista spiegato sulle loro teste sfila alla manifestazione della pace nel ventesimo anniversario della battaglia, sotto gli occhi attoniti dei reduci francesi; un’immagine potente ed evocativa a partire dalla quale si possono raccontare settant’anni di storia, dal conflitto franco-prussiano del 1870 alla seconda guerra mondiale.
LA MORTE DI GERDA
A luglio del 1937 in Spagna, vittima di un banale incidente sui campi di battaglia, Gerda muore; Capa dopo i funerali a Parigi alla presenza di 200 mila persone e la traslazione del corpo al Père-Lachaise, torna per qualche settimana in Spagna, ma forse turbato dall’assenza al suo fianco della sua compagna, abbandona il fronte spagnolo e parte per New York dove cura la stampa di Death in the Making, volume sul primo anno di guerra in Spagna, dedicato a Gerda Taro.
Nella primavera del 1938, su incarico di Life parte per la Cina dove da qualche mese è scoppiata la seconda guerra sino-giapponese e ritrae il generale Chiang Kai-shek e i soldati nazionalisti cinesi; la sua attenzione è ancora una volta richiamata dalla vita dei civili e racconta, come sempre macinando chilometri a piedi, ciò che succede nei villaggi e le conseguenze del conflitto sulla popolazione.
A ottobre del 1938 rientra in Europa, la guerra spagnola è agli sgoccioli, le truppe di Franco sferrano l’attacco decisivo alla Catalogna; a Barcellona bombardano, Capa fa degli struggenti ritratti della gente che si prepara per l’evacuazione, i repubblicani con le lacrime agli occhi alla “cerimonia di addio alle brigate internazionali”; l’esilio degli “sfollati sulla strada tra Barcellona e il confine francese”.
PRIMA DEL CONFLITTO MONDIALE
Negli anni seguenti è in Messico e poi negli Stati Uniti, dove ritrae Ernest Hemingway, conosciuto in Spagna, durante la guerra civile, Gary Cooper, in una pausa di un film e Ingrid Bergman sul set cinematografico di Notorius. poi torna in Europa, di nuovo in Francia per il Tour de France, in Belgio ad Anversa e a Bruxelles e a Londra, la città bombardata e la gente che si aggira tra le macerie; fotografa la celebrazione di una messa in una chiesa priva del tetto e della cupola; la vita nel rifugio e lo sguardo tenero tra due anziani coniugi.
Dall’estate del 1942 è con le truppe americane in Nord Africa e a luglio del 1943 le accompagna nello sbarco in Sicilia; al seguito dei corpi d’invasione americani risale con loro la penisola; a Troina, un soldato americano accovacciato, cerca di capire le parole e i gesti di un pastore siciliano che con un bastone indica la strada presa dai soldati tedeschi in ritirata; la marcia in aperta campagna; lo sguardo stanco e rassegnato di un soldato tedesco catturato; l’ingresso nelle città, le scene di giubilo al passaggio delle camionette; il “funerale di venti partigiani adolescenti” a Napoli il 2 ottobre del 1943, a poche ore dalla fine delle Quattro giornate.
LA FINE DELLA GUERRA
Il 6 giugno 1944 si imbarca a Weymouth, nel Dorset, per seguire le truppe alleate in Normandia; non smette di fotografare mentre è in ammollo nell’acqua insieme ai soldati americani e sbarca sulla spiaggia minata, dal nome in codice di Omaha Beach, bersaglio dei cannoni e delle mitragliatrici tedesche che sparano dalle casematte. Solo poco più di una decina di foto si salvano da un incauto sviluppo in camera oscura, le riprese sono concitate e Life nella didascalia alle immagini pubblicate le definisce “leggermente fuori fuoco”, titolo che Capa utilizzerà ironicamente, per la sua autobiografia.
Attraversa con i soldati la campagna e i paesi liberati dove la gente “accoglie le truppe alleate”, assiste alla cattura degli ultimi militari tedeschi e alla improvvisata conferenza stampa del generale Montgomery. Arriva a Parigi, minacciata dall’ordine di Hitler di raderla al suolo e i combattimenti ancora in corso per le strade con i soldati francesi che affiancano cittadini resistenti con le armi; poi finalmente la liberazione dopo più di quattro anni di occupazione nazista : “le truppe alleate sfilano sugli Champs Elysèes”, la gente festeggia, il Generale De Gaulle saluta la folla.
Nel Nord Europa non è finita, Capa si sposta sul fronte in Belgio, la porta d’ingresso dell’esercito tedesco in Francia il 10 maggio del 1940; sono ancora spari, la cattura di prigionieri; in un appartamento di Lipsia, ritrae i soldati che puntano i fucili dai balconi, a terra il corpo sanguinante con il capo riverso di uno di loro, “L’ultimo uomo a morire”.
A guerra finita è a Berlino, documenta lo sconforto e la disfatta sui volti delle persone tra le rovine della città devastata dalle bombe, bambini soli che girano per le strade, le Trümmerfrauen, sono donne che ripuliscono la città dalle macerie, la gente in coda in cerca di cibo; è l’ambientazione che farà da scenario a “Germania anno zero” di Rossellini, la Chiesa del kaiser Guglielmo, la cui carcassa bruciata rimarrà intatta fino ai giorni nostri a futura memoria, è lo sfondo dei tavolini di un bar dove la gente beve bicchieri d’acqua.
LA FONDAZIONE DELL’AGENZIA MAGNUM
Nel 1947 è tra i fondatori a New York, insieme a Cartier-Bresson e a Seymour, dell’agenzia fotografica Magnum, a marzo rientra in Europa, accompagna lo scrittore John Steinbeck in un viaggio in Russia, oltre quella cortina di ferro che a detta di Churchill era calata sull’Europa Orientale. Scortati da funzionari governativi del Voks, l’ente per gli scambi culturali con l’Occidente, riescono a entrare in posti altrimenti inaccessibili per documentare la quotidianità della vita in quel mondo di cui a occidente si ha tanta paura; tema del viaggio “la gente è uguale dappertutto”, si istruisce, lavora, mangia, si diverte come a occidente. Nei grandi magazzini Gum, la gente guarda meravigliata le merci in vendita che non potrà mai permettersi; un’insegnante di chimica mostra un esperimento agli allievi della sua classe mista; a Stalingrado e a Varsavia si cammina ancora tra le macerie; per le strade di Mosca la domenica si balla, in primo piano due donne abbracciate, lo sguardo fiero fissa l’obiettivo.
Ad agosto del 1948 compie dei reportage di viaggio per la rivista americana Holiday, ospite del suo amico Pablo Picasso, lo ritrae mentre con un ombrellone protegge dal sole la sua compagna, la pittrice Françoise Gilot.
A maggio del 1949 è in Israele, dove documenta ad Haifa l’arrivo degli immigrati che arrivano da tutto il mondo per partecipare alla creazione del nuovo stato; i coloni con le valigie sulla testa arrivano nei campi di transito per gli immigrati e marciano verso i kibbutz; si costruiscono i primi insediamenti dei coloni; Ben Gurion e Menahem Begin si fronteggiano dai palchi dei comizi; gli studenti di una Yeshivah sono impegnati nello lettura del Talmud.
LA FINE
Nella primavera del 1954 è in Indocina dove segue le ultime fasi della guerra tra l’esercito coloniale francese e il movimento Viet Minh, guidato da Ho Chi Minh; la battaglia di Diên Biên Phu, decisiva per gli esiti del conflitto, è vinta dai Viêt Minh con la resa delle forze francesi e il loro definitivo ritiro. Il 25 maggio scatta l’ultima foto, riprende una colonna di soldati francesi in avanzamento nella radura, per farlo ha scelto un punto di ripresa alto, sale su un terrapieno, l’elevata umidità ha reso faticosa la sia pur breve arrampicata e prima di rimettersi in cammino si guarda ancora un’ultima volta intorno, si asciuga il sudore con un fazzoletto e riprende fiato, poi il piede si posa su una mina inesplosa. A quarant’anni si spegne la sua vita, ne ha passati venti a girare per il mondo e a inventare il foto-reportage, un modo di riprendere la guerra, come mai nessuno prima, e dopo, tutti come lui; l’istinto da cacciatore nella ricerca della foto, la peregrinazione instancabile sulla scena per il miglior posizionamento, la scelta dell’attimo perfetto in cui scattare, frutto di una sensibilità e di un’empatia naturale col soggetto e un pizzico di incoscienza per cacciarsi, come da bambino, sempre nei guai.
Carlo Rotondo
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