di Carlo Rotondo
La cattura, l’11 maggio del 1960, di Adolf Eichmann sul suolo di un paese straniero e la sua condanna a morte
a seguito di un processo a porte aperte fu un’impresa resa possibile grazie alla tenacia del procuratore tedesco Fritz Bauer
che riuscì a stanare l’ex gerarca nazista in Argentina dove si era rifugiato grazie alla rete di connivenze chiamata Odessa,
l’organizzazione degli ex membri delle SS, e la complicità del governo Peronista e del Vaticano.
Nel docu-romanzo di Riccardo Gazzaniga, In forma di essere umano (#Rizzoli), si ricostruiscono le fasi di preparazione ed esecuzione del rapimento e della successiva prigionia, conclusasi con una rocambolesca fuga in aereo verso Israele; azioni progettate dalla squadra del Mossad su incarico dell’allora primo ministro Israeliano Ben Gurion.
La storia è nota, raccontata a più riprese anche in versione cinematografica e oggetto di libri e di tesi di laurea e Riccardo Gazzaniga, con ottima prosa e maestria narrativa, restituisce al lettore l’atmosfera e gli stati d’animo dei protagonisti, messi indirettamente a confronto attraverso i loro pensieri nei giorni che precedono la cattura. L’avvicendamento delle due prospettive prende a volte un ritmo vertiginoso e volutamente spiazza il lettore in un continuum di pensieri che rende più sfumata la demarcazione tra bene e male.
Il racconto è molto avvincente, ma i fatti narrati e il riaffiorare nella memoria dei ricordi legati alla Shoah richiedono spesso di riprendere fiato e considerare l’aberrazione di quanto accaduto, sbigottiti di fronte alla scelleratezza e alle argomentazioni di Eichmann sull’obbedienza dovuto da buon soldato: “Ho eseguito gli ordini, signore. Decisioni non mie. Qualsiasi Stato si basa su ordine e obbedienza, no? Anche Israele. Io ero solo un tenente colonnello, un recipiente di ordini. Se lo Stato ha un buon capo, il recipiente è fortunato. Altrimenti, il subordinato viene riempito con cattivi ordini”.
«Un recipiente di ordini»
Un recipiente da riempire perché apparentemente vuoto di volontà e libero arbitrio, ma evidentemente un meccanismo giustificatorio che deresponsabilizza chi come Eichmann fu in realtà l’architetto della “soluzione finale”, pienamente responsabile e consapevole delle conseguenze scaturite dalle sue iniziative. Le sue proposte disegnavano nei dettagli le modalità organizzative della Shoah e Il suo zelo era pari all’ambizione di risalire nella gerarchia militare del terzo Reich, mistificando il suo operato attraverso la favola della disciplina e dell’inevitabilità dell’obbedienza agli ordini ricevuti.
All’epoca si scatenarono, specie in Israele, dibattiti accesi e non solo di natura giuridica; per la Torah, riferimento degli ebrei osservanti, cittadini di uno Stato confessionale, la vendetta è prerogativa esclusiva di Dio e solo per elezione divina l’uomo che riceva la chiamata può farsi suo strumento. Ma lo Stato di Israele, viceversa si era preso l’onere, sia pure ex-post, di difendere e proteggere i propri cittadini e rendere loro giustizia, perseguendone i carnefici. Fu forse eccessiva la misura, si poteva cioè evitare la cattura in territorio straniero, chiedendo viceversa l’estradizione e in caso positivo non arrivare alla condanna a morte? È il punto di vista garantista che scelse l’Italia nel 1995 a proposito di Erich Priebke, il massacratore delle Fosse Ardeatine, condannato all’ergastolo, e anche in questo caso tra mille esitazioni e prese di posizione da parte dell’opinione pubblica. Nel caso del rinvenimento di Eichmann, il governo tedesco rinunciò ala richiesta di estradizione alle autorità israeliane, finendo per perdere l’occasione di fare i conti col proprio passato; gli altri gerarchi nazisti, in numero limitato, per quanto rappresentativi dell’alta gerarchia del regime, furono giudicati, ma dagli americani, al processo di Norimberga, mentre diverse centinaia di criminali di guerra riuscirono a sfuggire alla cattura.
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