A scuola, le poche volte in cui se ne parla ancora, ci viene consegnata come l’amante giovane di un vecchio Giosuè Carducci. E ancora sulla sua lapide, al Monumentale di Torino, rimane questo sigillo, con i versi incisi del poeta. Invece Annie Vivanti (Norwood, 7 aprile 1866 – Torino, 20 febbraio 1942), scrittrice, giornalista e poeta poliglotta, è stata una personalità complessa, importante, perfino fondamentale per il giornalismo europeo. È stato da poco ripubblicata la sua raccolta di racconti del 1921, Gioia!, (fvƏeditori) nella cui introduzione Lidia Ravera, spiegando la centralità del personaggio e chiarendo come ci sia sempre lei dietro le sue storie, scrive:
«Anna Emilia Vivanti, nata in Inghilterra, dove il padre, rivoluzionario mazziniano ha dovuto riparare, per evitare la galera. “Lei”: vissuta nel Regno Unito e in Italia e negli Stati Uniti e in Svizzera. “Lei”, poliglotta e giramondo, che cavalca come un fantino professionista, che scrive poesie in italiano e una decina di romanzi in inglese. “Lei”, autrice di best seller e tuttavia amata dalla critica (oggi sarebbe quasi impossibile, soprattutto per una donna). “Lei”, che viene recensita e studiata da personaggi del calibro di Benedetto Croce. “Lei” che alla prima raccolta di poesie giovanili, riceve la prefazione e la benedizione di Giosuè Carducci, facendolo innamorare (ha 24 anni, lui ne ha 55). “Lei” che è letta da tutti, colti e incolti, borghesi e popolo.
“Lei”, che cambia identità scegliendosi di volta in volta una patria o un’altra.
Annie Chartres Vivanti nel Regno Unito, maritata con John Chartres, attivista di Sinn Fein, il movimento indipendentista irlandese impegnato nella lotta di liberazione dall’Inghilterra. Annie Vivanti in Italia, dove si avvicina, sull’onda del comune odio per l’Inghilterra (ha affiancato il marito nella lotta per l’indipendenza dell’Irlanda) a Mussolini e al Fascismo. “Lei”, che dal fascismo, nel 1941, viene mandata al confino perché nata comunque nella “Perfida Albione” ed è Mussolini stesso che deve intervenire per salvarla. “Lei” che mette al mondo una bambina prodigio, violinista a sette anni e poi artista di fama internazionale, e la racconta in due romanzi La vera storia di una bambina prodigio e I divoratori, analizzando anche le ricadute drammatiche dell’eccesso di talento. “Lei” che deve sopportare l’insopportabile: quando, avvelenata dalla sua stessa precocità e dal dono inestimabile del genio musicale, la figlia violinista muore suicida, nel 1941. A 48 anni.
“Lei” che muore un anno dopo sua figlia.»
La lingua di Vivanti ci appare oggi troppo ridondante, anche nelle sue prove migliori, come Circe, il “romanzo” su Maria Tarnowska che è in realtà uno dei primi esempi di long form journalism italiano e di sicuro il primo tentativo di scavare senza pregiudizi nella personalità di una donna condannata per omicidio. Ma i temi trattati da Vivanti sono di grande attualità, stupri di guerra compresi. Per questo la ripubblicazione di Gioia!, nel suo centenario, è così importante.
Per renderlo evidente pubblichiamo qualche passo dal racconto Quella che Landru non uccise
Uscivo questo pomeriggio dalla Direzione del «Matin», dove ero andata a salutare l’amabile De Jouvenelle e la sfolgorante Colette, allorché il vecchio usciere – un sorridente cerbero che conosco – mi fermò, e additandomi una donna che in quel punto scendeva le scale uscendo dagli uffici di redazione, sussurrò misterioso: “Sa chi è quella signora?”
Io non lo sapevo; ed egli, abbassando ancor più la voce, mi informò:
“È quella… che Landru non uccise!”
“Quella che Landru non uccise! ” Non stetti ad ascoltare di più; scesi rapida dietro la snella figura che già spariva allo svolto della scalinata. Volevo vederla, questa donna scampata da una morte così atroce; volevo vedere se il suo viso portava le tracce del passato terrore.
Giunsi quasi contemporaneamente a lei nel grande vestibolo, ed ella, uscendo, si volse a tenere con atto cortese la porta aperta dietro di sé.
Pioveva; sul boulevard Montmartre passavano frettolosi i viandanti sotto gli sgocciolanti ombrelli; in mezzo alla via correvano veloci le carrozze tutte occupate.
La mia automobile stazionava vicino al marciapiede.
Mi volsi e guardai quella donna che, senza ombrello, ferma sullo scalino del «Matin» pareva incerta se avviarsi o no; non era bella, ma aveva un viso estremamente interessante e due grandi occhi scuri, mobilissimi. Seguendo l’impulso del momento io le rivolsi la parola.
“Vuole ch’io la conduca… quelque part? ”
Lei mi guardò un po’ stupita e non rispose subito. Indi chiese repentina: “Lei appartiene alla redazione del «Matin»?”
“Sono scrittrice” risposi evasivamente.
“Ah!” Vi fu un attimo di pausa. “E… sa chi sono io?”
Allora, guardandola fisso, io ripetei la frase dell’usciere.
La donna si volse di scatto e un’espressione indefinibile le passò sul volto. Era come un tic nervoso che per un attimo le sconvolse i lineamenti.
“Ah!” fece di nuovo. E tacque.
In me la smania dell’esplorazione psicologica era nata, e s’agitava.
“Venga a prendere il tè con me al Grand Hôtel” dissi, seguendo l’impulso irrefrenabile dello scrittore davanti ad un’anima nuova, ad un’esperienza nuova.
“Che strana idea!” esclamò lei, e rise. Aveva un sorriso bellissimo; ma non era un sorriso consenziente; anzi, vidi i suoi occhi vagare inquieti per il boulevard, come s’ella meditasse la fuga.
D’improvviso mi balzò nel ricordo un consiglio datomi un giorno a Roma da un eminente personaggio diplomatico: “Se mai volete ottenere qualche cosa da qualcuno,” mi aveva detto lui, “ricordatevi di guardarlo fissamente in mezzo agli occhi: proprio tra le due sopracciglia! Quindi esprimete lentamente e con ferma volontà il vostro desiderio. Vedrete che nove volte su dieci riuscirete nel vostro intento.”
Allora io, ferma su quel trottoir parigino, incurante dei passanti, fissai con intensità ipnotizzante quella sconosciuta; la fissai nel centro della fronte tra le due sopracciglia nere, e ripetei il mio invito.
Lei ebbe uno strano gesto delle spalle, un istante d’esitazione… Indi accettò.(…)
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