«Tu che davi del bugiardo a papà, che lo hai fatto passare per un uomo su cui non si poteva fare affidamento, che non gli si poteva credere, non hai capito mai niente. E come potevi? Cos’hai visto e conosciuto tu oltre la casa materna da dove sei uscita per sposarti e come dote portavi la tua educazione, o meglio l’educazione di una povera ragazza ebrea di campagna che aspettava il Messia, pregava e sfornava figli voluti da Dio. Dieci, venti, trenta, che importava? Era volontà del Signore di benedirti o maledirti con tanti figli. Aborto o divorzio erano parole sconosciute per te, bestemmie, peccati mortali, vergogne»
Lettera alla madre della scrittrice Edith Bruck (Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2022) è un monumento alla verità. Per questo, nel Giorno della Memoria, 27 gennaio, ha senso parlare di un libro che non è tanto e soltanto un atto di accusa contro la Shoah. Ma anche un processo lucido alla madre e al mondo che rappresentava. Ovvio che la Shoah ha diviso l’Europa (visto le complicità di una serie incredibile di nazionalità, dagli italiani ai polacchi, dai francesi ai greci) tra vittime e carnefici. Ma ogni visione semplificata non può dimenticare che nemmeno un popolo oppresso è una massa informe. È fatto di persone, diverse, con responsabilità proprie. Il libro-inchiesta, interessantissimo, di Rosemary Sullivan, Chi ha tradito Anne Frank. Indagine su un caso mai risolto pubblicato in Italia da Harper & Collins (2022), si muove sullo stesso principio: la verità serve alla verità. E quindi, sapere oggi che a tradire la famiglia di Anna Franck fu il notaio ebreo Arnold van den Bergh, non diminuisce ovviamente le responsabilità dei carnefici, ma fa luce sulla rete di orrore, sulle zone grigie, sulle complicità, anche involontarie, forzate o estorte, di cui hanno goduto.
Allo stesso modo, la condanna della distruzione delle comunità ebraiche dell’Europa dell’Est, avviata, nei Paesi slavi, già in epoca zarista, e terminata dai nazisti, non può dimenticare quale cultura e quali idee le animassero. Fosse soltanto per comprendere l’integralismo degli ortodossi che, per esempio, oggi condizionano pesantemente la politica di Israele e quella di alcune comunità degli Stati Uniti, come abbiamo visto in serie e film (Unorthodox, per primo: imperdibile miniserie televisiva tedesca e statunitense creata da Anna Winger e Alexa Karolinski, basata sull’autobiografia del 2012 di Deborah Feldman).
Qual è dunque il senso di leggere oggi Lettera alla madre? Edith Bruck è una sopravvissuta all’Olocausto che ha scelto di non odiare. Che, con una coraggio e una forza ineguagliabili, ha scelto di vedere la luce anche dove tutti noi vediamo solo abisso. Lo ha fatto anche nei suoi altri libri (La Nave di Teseo ha pubblicato: La rondine sul termosifone, Ti lascio dormire, Il pane perduto, Tempi, Andremo in città).
Il vero nome di Bruck è Edith Steinschreiber: è nata a Tiszabercel, in Ungheria, nel 1931 ed è naturalizzata italiana. Nella primavera del 1944 è stata deportata ad Auschwitz con la famiglia dal ghetto di Sátoraljaújhely. Dopo essere stata trasferita in altri campi, Dachau compresa, è stata liberata, insieme alla sorella, nell’aprile del 1945. Madre, padre, un fratello e altri famigliari non sono sopravvissuti. Bruck è il cognome assunto in Israele dopo essersi sposata. Ma non è questo il luogo per riassumere una biografia drammatica, complessa, ma anche culturalmente ricchissima, soprattutto dopo l’approdo a Roma e con il sodalizio con il regista Nelo Risi, diventato poi suo marito.
Bruck, dunque, in Lettera alla madre non solo ripercorre il dramma della sua famiglia e la vita nel lager. Ma fa anche i conti con la figura che più appresentava la cultura tradizionale, arcaica, misogina in cui era nata. La madre, appunto. Ma che anche la persona che Edith ama di più.
«La paura di perderti era diventata il mio unico incubo. Non mi aveva mai sfiorato la paura per me stessa, i miei sentimenti erano ancora sani, solo dopo chissà quando cominciai a non sentire più niente per nessuno. Come se all’infuori di me e Golda non esistesse nessuno. Il mondo era fatto di noi due. Della nostra pelle. Distrarsi dalla propria vita era pericolo di vita. Bisognava sorvegliarla ventiquattr’ore su ventiquattro. Se le statistiche corrispondono al vero, la vita media ad Auschwitz durava dai due ai tre mesi. Chi voleva reggere di più come me, doveva diventare padrona della sua vita. Paradossalmente l’esistenza non dipendeva più nemmeno dagli assassini attorno, stava a noi di camminare o no quando gli altri si fermavano, lavorare ancora quando gli altri si lasciavano crollare, spidocchiarci di nuovo quando gli altri si facevano mangiare dai pidocchi».
Ovvero l’orrore è tutto lì. Ma è anche l’esigenza della verità. Che proprio l’orrore, basato ancora oggi sulle menzogne e le falsificazioni di chi nega quanto successo in Europa tra 1933 e 1945 o ne diminuisce il peso, rende ancor più necessaria.
«Allora che differenza fa tra cultura e cultura, tra paese e paese, madri povere e madri borghesi, tra cristiani, ebrei o laici? I sentimenti, i valori fondamentali sono universali. Le cose semplici che non esistono, la giustizia, la democrazia dell’anima, il diritto a una vita dignitosa per tutti. Tutti, mamma, indistintamente. Chiaro? Questo è il mio sogno. Sogno impossibile di cui ho pudore. Deve suonare retorico. Anzi suona retorico come tutte le cose semplici, elementari: amore, fedeltà, lealtà, pietà, verità. Verità! L’unica cosa che suona falsa».
Lettera alla madre, Edith Bruck, La nave di Teseo, 2022
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