Lorenzo Cremonesi

Buongiorno, signor Cremonesi, la ringrazio per aver accettato questa mia intervista.
 
Prima di tutto, le pongo una domanda di etichetta: recentemente un suo collega Toni Capuozzo, ha espresso un certo fastidio per il termine ‘giornalista di guerra’, come se solo la guerra meritasse d’essere raccontata.
Lei cosa ne pensa, come preferisce essere definito da questo punto di vista?
 
(C): Inviato di guerra… Dunque, questa intervista è per una tesi di laurea, vero? Non è un’intervista giornalistica… Sì, certo. Quindi possiamo ragionarci a mente fredda.
Ci sono varie cose da dire. Io non credo che ci sia una specializzazione ad hoc, inviato di guerra, inviato speciale, ecc. Ci sono giornalisti che preferibilmente vanno in zone di guerra o di guerriglia. Che cosa voglia dire inviato di guerra non lo, perché siamo tutti persone che hanno avuto diverse esperienze, che fanno magari l’inviato in zone di guerra per brevissimi periodi e poi sfoggiano questo titolo per chissà quanto tempo. E magari si tratta di operatori che, la guerra, non la vedono neanche, ne stanno molto distanti, fanno la guerra raccontata da una base militare e quindi la sentono solo dai bollettini. Quindi io sono molto scettico quando sento il titolo inviato di guerra.
Stavamo facendo l’altro giorno uno studio per un libro sui nostri inviati degli ultimi centocinquant’anni, insomma dalla nascita del Corriere in poi, gli inviati che seguivano le grandi avventure, le grandi spedizioni. Bene, in questo ambito si vede ciò che generalmente succedeva nel ’50, nel ’60, ovvero che c’era chi andava in guerra per un periodo generalmente breve e poi diventava inviato di guerra, ma non lo faceva più.
Quindi io mi limiterei a dire: ci sono inviati che preferibilmente vanno in zone di guerra, ma in realtà non vedo una categoria specializzata in questo, anche perché per fortuna il nostro non è un mondo così pieno di guerre come si tenderebbe a dire nelle accezioni drammatiche del nostro tempo dove tutto è esagerato, dove tutto è drammatizzato. E poi magari si scopre che un inviato di guerra passa dieci anni a Parigi! Poi il nostro è un lavoro molto versatile, c’è gente che gira, che viaggia, insomma diciamo che in questi anni tra l’intifada, la guerra nel Golfo, in genere molti degli inviati delle varie organizzazioni giornalistiche hanno passato alcuni periodi in zone di guerra.
Una domanda più tecnica. Negli ultimi teatri di guerra, come l’Afghanistan, l’Iraq, il rischio per i giornalisti purtroppo è aumentato. Secondo lei, questo fattore può portare ad una limitazione della capacità di testimonianza dei giornalisti, della loro capacità di movimento?
 
(C): Mah, io stavo facendo un lavoro sulla ritirata di Russia, e per esempio ho scoperto che nella ritirata di Russia dell’ARMIR solo per il Corriere della Sera sono morti 6 o 7 inviati. Giornalisti che erano al seguito dell’ARMIR e che sono morti sul fronte russo.
Io direi che c’è un elemento abbastanza nuovo negli ultimi dieci anni, che riguarda non solo i giornalisti ma che tutti gli occidentali, siano essi degli Ngo, siano del personale ONU, diplomatici, ecc. che operano in zone islamiche. Cioè esiste un pericolo di estremismo legato ad Al Qaeda, legato all’estremismo islamico di ispirazione alqaediana o alqaedesca o come diavolo si dice, ovvero dove tu in quanto non musulmano, esponente di un Paese visto come nemico.
Anche se tu magari sei antiamericano o hai un’ideologia terzomondista, rischi comunque. Cioè è diverso da quanto è successo negli anni ‘50, ‘60, ‘70, ‘80: in quei periodi se tu andavi in una zona di guerra era oggettivamente pericoloso, ma solo se ti prendevi una bomba in testa, eri morto e va bene.
Adesso invece avviene che ci sono dei gruppi che volutamente ti cercano, ti considerano come un obiettivo lecito, e questo certo che ci limita come professionisti. Ci ha limitati in Iraq, ci limita in Afghanistan, ci limita anche in Pakistan, ci limita anche in Egitto. A me è successo di avere vissuto oggettivamente dei momenti difficili andando dove operano indisturbati gruppi del fondamentalismo islamico, che tra l’altro danno la caccia ai copti, ecc.
Tu vai lì ed uno ti potrebbe catturare e prendere, metta il caso di Alan Johnson, inviato della Bbc, a Gaza. Lui era lì, tra l’altro benvoluto dai palestinesi, dalle autorità di Arafat, eppure gruppi banditeschi o comunque di ispirazione islamica lo hanno catturato, per un riscatto però in fondo c’è anche tutta la componente islamica.
Quindi questo è un elemento abbastanza nuovo, che limita certamente il nostro ruolo. Io sono convinto però che durante la Seconda guerra mondiale un giornalista americano non potesse andare sul fronte giapponese, quindi stiamo attenti a dire ‘un elemento nuovo..’. Ci sono condizioni nuove nel senso che è tutto nuovo, la storia non si ripete, tutto cambia. Penso che in altri periodo, per un giornalista che apparteneva ad un campo – noi apparteniamo più o meno al campo europeo, occidentale – è stato pericoloso lavorare da un’altra parte, insomma ecco.. Gli inviati americani ad un certo punto lasciarono Berlino, e così è tuttora nei Paesi islamici più integralisti.
Quindi, certamente siamo in una fase strana, una fase in cui ancora pensiamo di operare – o almeno lo è stato fino a due, tre anni fa in Iraq – con una certa impunità per il giornalista. E pensiamo: noi siamo super partes, fatti loro!, questi si ammazzano mentre noi raccontiamo la storia. Poi provenivamo tutti dall’esperienza palestinese degli anni ’70 e ’80. I palestinesi fino alla seconda intifada, quindi fino all’inizio del 2000, ci vedevano infatti come loro alleati, perché i giornalisti raccontavano i soprusi degli israeliani.
Io parlo delle grandi storie, ma anche andare in Pakistan non era così pericoloso, prima. Io direi che questo stato di cose sia iniziato dalla morte del povero Daniel Pearl, nel 2002, da quando è stato assassinato Daniel Pearl – tra l’altro io l’ho conosciuto a Peshawar – quello che gli è successo ci mise tutti in allarme… E quindi questo certamente è un elemento di incertezza nuova che certamente ci limita perché noi siamo visti come obiettivi legittimi. Invece prima poteva al massimo capitare l’accidente, cioè come nel caso di Maria Grazia Cutuli, che probabilmente è stata presa da un gruppo di banditacci travestiti da talebani. Forse l’hanno uccisa per altri motivi, non perché fosse una giornalista occidentale.
 
Una domanda sul giornalismo, sia embedded che come diceva il suo collega Battistini da “cani sciolti”, o individuale. Nella sua esperienza, il controllo delle informazioni da parte delle autorità militari o civili, è sempre molto forte, molto marcato?
Si può parlare addirittura di censura?
 
(C): Allora, questa è una domanda a cui tengo rispondere con attenzione.
Il termine embedded in Italia ha tutta un’aureola di criminizzazione, di illiceità, di giornalismo di parte, partigiano, quindi questo porta all’insultante frase ‘sei il portavoce dei militari ’.
Io veramente mi rifaccio a tante esperienze che ho avuto con gli americani, oltre che con gli italiani. Prima di tutto bisogna rimarcare una netta differenza tra giornalista della stampa scritta, che è molto più libero,e giornalista televisivo, che non lo è più.
Io veramente non ho mai avuto nessun problema con le autorità americane, perché tendenzialmente tendo a non girare con la macchina fotografica. Quindi senza macchina fotografica io ho una vita assolutamente facilitata. Devo dire che le cose sono più complesse per i giornalisti televisivi, perché c’è l’immediatezza del media, perché tu con la televisione puoi dimostrare dove cade la katiuscia e quindi dire indirettamente al nemico dove può tirare, dove sbaglia e dove mira meglio, tutte queste cose qua. Che hanno comunque un loro sensibile peso, in una guerra.
Per esempio gli israeliani vietavano a tutti, carta stampata e televisione, di menzionare, non solo di fotografare, ma di menzionare, il luogo dove impattavano al suolo le katiuscia oppure gli Scud iracheni nei bombardamenti nel 1991. Però l’anno scorso per esempio quando ero a Tiro in Libano, c’erano delle miliziacce, degli Hezbollah – non so bene neanche quanto fossero organizzati comunque – che venivano a rompere le scatole ai giornalisti che erano assiepati nella resthouse, nell’hotel sul lungomare di Tiro, a riprendere i tiri delle loro katiuscia che sparavano, ci dicevano: no, non potete riprenderle perché se no dite agli israeliani da dove noi spariamo. E sono riprese in diretta. E quindi ci limitano molto anche le milizie, non solo i governi, non solo gli eserciti.
Questo tipo di censura è molto meno sofferto dai giornalisti della stampa scritta.
Questo detto, io trovo il giornalismo embedded come assolutamente legittimo. Gli americani mi portarono a dar la caccia nel 2003 a Saddam Hussein, oppure ad inseguire Osama Bin Laden nelle zone tribali tra il Pakistan e l’Afghanistan, sono state ottime esperienze.
Adesso parlo un po’ dell’esperienza di Tikrit, che tra l’altro purtroppo è terminata troppo presto perché dopo venti giorni l’hanno preso. Io ero stato lì con loro a novembre, era interessantissimo, a volte ripenso se fossi stato con quella pattuglia..!
Comunque sia io avevo la massima libertà, mi mostravano come operavano, mi facevano vedere le loro tecniche, stavo sulle loro jeep. Vuoi star sul campo, vedere cosa succede?, ci vai, ascoltavo le loro conversazioni tra i veicoli… Quindi se tu vuoi capire come funziona sul campo, lo trovo assolutamente legittimo. Ci sono delle situazioni, per esempio in Afghanistan dopo il rapimento Mastrogiacomo, nelle zone meridionali di Helmand, ove puoi andare solo come embedded perché se no succede quello che succede.
Quindi in alcuni luoghi – e ripeto, questo lo dico ad alta voce, non ho paura – trovo spessissimo, specie con l’esercito italiano, delle grandissime difficoltà. L’esercito italiano impone dei limiti, delle censure molto forti e c’è un’ostilità pregiudiziale nei confronti della stampa come io non ho trovato per esempio tra gli americani che invece sono molto, molto più aperti di noi. Ci trattano molto meglio, ci rispettano molto, molto di più e ci danno molto più spazio. Ci fanno parlare con i soldati, non c’è tutta quella paura. C’è, io devo dire, tra i militari italiani un pregiudiziale timore, paura ed addirittura ostilità nei confronti della stampa. E questo lo dico veramente con grande dispiacere.
Bisogna aggiungere che negli ultimi tempi vi è stata la nota professionalizzazione dell’esercito, e questa attitudine sta un po’ diminuendo. Ma rispetto agli americani siamo ancora come la luna ed il sole. Cioè i nostri ufficiali sono sempre più ufficiali che non trovano nell’esercito l’ultima zona di rifugio alla disoccupazione, che si arruolano per scelta, per professionalità, che prendono paghe più alte, sono sempre più dei professionisti, poi c’è una maggior interdipendenza, integrazione, cooperazione tra civili, Ngo, apparati dello Stato, civili e quindi tecnici e militari e questo non va che a loro beneficio. Quindi questa attitudine è un po’ cambiata, per esempio ho trovato una maggior professionalità nell’esercito. Ormai sono un 5 o 6 anni che è stata abolita la leva, ci sono dei mutamenti visibili nell’arco di mesi e questa cosa speriamo si adatti agli standard internazionali, occidentali, americani, NATO.
Ma ancora adesso questo pregiudizio, rigidità, censura, permane evidentemente. Quindi io dovendo scegliere tra l’embedment con l’americano, canadese o inglese o italiano, andrei senza dubbi dagli inglesi, dagli americani, non avrei veramente dubbi. Perché lì c’è un modo diretto di gestire le notizie e anche un’apertura che tra gli italiani assolutamente non c’è.
 
Invece, parliamo di un singolo caso: il 12 giugno dei militanti palestinesi hanno cercato di rapire un militare israeliano usando una jeep della stampa camuffata. Questo può porre a repentaglio la sicurezza degli inviati in queste zone? Cosa ne pensa?
 
(C): Io quella roba l’ho vista in prima persona. E’ stata denunciata, e giustamente perché bisognava denunciarla, ma attenzione: purtroppo l’uso della stampa come copertura è una prassi comune. Gli israeliani nella prima intifada nel 1987 giravano per Gaza e nei territori palestinesi usando le auto con scritto stampa, quindi gli israeliani adesso fanno tante scene ma in modo ipocrita.
Voglio dire: è giusto denunciarlo in ogni occasione ma direi che nessuno da quelle parti è esente da abusi di questo genere e questo naturalmente ci mette in pericolo, tant’è che mi ricordo che io personalmente venni preso a sassate dai palestinesi. Questi stessi palestinesi il giorno prima non lo facevano, ed invece mi ruppero tre o quattro vetri della macchina, quando ancora in macchina si poteva entrare a Gaza nel 1987. L’Hezbollah per esempio utilizzò delle jeep bianche con scritto Reuter, sia l’anno scorso sia qualche anno fa come copertura, girando al confine con Israele.
Gli israeliani ad un certo punto scoprirono questa pratica e spararono contro la macchina, poi uccisero anche un tecnico della Reuter, perché in un caso avevano ragione, in un caso sfortunatamente no.
Ma attenzione, non è solo la stampa, il discorso è uguale per la Croce Rossa. Allora, faccio questo esempio: al tempo dell’assassinio di Ciriello, del giornalista italiano che collaborava col Corriere da Ramallah, io mi ricordo che c’erano tutte queste accuse ai palestinesi poiché usavano le auto della Croce Rossa. Così gli israeliani sparavano sulla Croce Rossa. Quando Ciriello fu ferito dal carro armato io andai all’ospedale dove era stato portato il cadavere, e l’ospedale di Ramallah pullulava di uomini armati, che si erano nascosti lì.
Un altro esempio. Saddam Hussein, nei giorni precedenti l’attacco americano, aveva letteralmente circondato i massimi ospedali e le moschee di Baghdad con elementi scelti della Guardia repubblicana. C’era l’ospedale dei bambini di Baghdad che era completamente coperto, nel senso che faceva da copertura ai missili, agli Scud, era una prassi criminale. Quindi l’utilizzo di elementi considerati neutri che venivano pregiudicati è sempre esistita.
Se ci si fa una qualsiasi copertura con la stampa, tutta questa categoria perde l’immunità. Gli israeliani hanno comunque fatto benissimo a denunciare il caso di Gaza. Questi fatti aumentano l’indice di mortalità tra i giornalisti.
 
Una domanda sulle comunicazioni fra giornalista e il suo giornale, piuttosto che la sua televisione: il Libano, dal mio punto di vista, sembra estraneo e più vicino rispetto all’Iraq piuttosto che all’Afghanistan. Le comunicazioni sono così precarie o sono più facili? Vengono disturbate apposta dai militari piuttosto che dai guerriglieri?
 
(C): Non ho capito: le comunicazioni di che genere? Io che devo telefonare al Corriere oppure sui giornali locali?
 
No, mi riferivo le comunicazioni tra lei e il suo giornale.
 
(C): Allora, nelle zone di conflitto uno dei metodi, come dire, dei provvedimenti ricorrenti consisten nel colpire le telecomunicazioni, le centraline telefoniche, oltre che naturalmente le infrastrutture. Gli israeliani durante la guerra del Libano fecero esattamente questo: si trattò di un discorso di rappresaglia contro le autorità civili. La logica degli israeliani è stata semplice: se il tuo governo non interviene a controllare gli Hezbollah, voi tutti ne farete le spese.
Quindi non è solo per tagliare le telecomunicazioni: i ponti, le centrali elettriche, le strade, insomma tutte le infrastrutture civili vengono colpite per rappresaglia. Il giornalista però con le telecomunicazioni ci trasmette le notizie. Generalmente al governo, come dire, all’attore bellico, dà più fastidio il media nazionale e pertanto le autorità mantengono il controllo dei propri media e della propaganda. Un esempio. Stiamo vincendo!, un classico, ovvero Nasser quando subì l’attacco degli israeliani nel 1967 ed andò avanti per ventiquattrore dicendo Abbiamo vinto, perché era una dittatura e a lui premeva che i suoi media seguissero gli ordini che venivano dal potere centrale.
Io non credo assolutamente che in Libano gli israeliani abbiano colpito le centraline telefoniche per colpire il deficiente della Reuter o del Corriere della Sera che lavorava da Tiro e che mandava il suo bravo pezzo, no. Lì era un discorso di attacco alle infrastrutture civili.
C’è delle volte un discorso di monitoraggio e di ascolto dei media. Questo poiché il giornalista che trasmette, parla per telefono dal campo avversario è un testimone e quindi è interessante sapere cosa dice. Ma questo succede anche nel caso di dittature tout court, ed in tempo di pace.
Io ho migliaia di esempi in cui mi sono reso conto di essere stato monitorato, spiato telefonicamente, ascoltato telefonicamente, dovunque: dall’Afghanistan al Pakistan fino ad Israele, fino in Libano, e forse non solo da un attore, da più, anche se poi c’è un po’ di paranoia fra i giornalisti che si danno più importanza di quanta non abbiano: Ah qui mi ascoltano… E invece magari il telefono non funziona per te, così come non funziona alla massaia del piano di sotto.
Seguirti in un Paese straniero vuol dire avere delle persone che parlano la tua lingua, registrarti, e devi calcolare che noi magari quel giorno siamo mille giornalisti. Non è mica facile, comporta dei dispendi di tempo… La Siria per esempio, le grandi dittature queste cose le fanno tranquillamente, hanno tutta una struttura apposta. Voglio dire che in Siria c’è ancora l’abitudine di mandarti delle puttane in camera, scusa per il termine, delle prostitute, per sapere del tuo telefonino, per ricattarti in caso di guai futuri… Come capitava nella Mosca degli anni ’70.
 
Ecco, lei parlava della Siria, ma abbiamo visto tutti il Libano e la morte degli amici di Rafik Hariri, Pierre Jemayel, pochi giorni fa: secondo lei, cosa sta succedendo? Come è possibile che la Siria o i filosiriani osino tanto davanti agli occhi della comunità internazionale?
(C): Allora, qui bisogna partire da un presupposto: la Siria, agli occhi del politico medio siriano – che sia filo Bashar Assad o meno -, considera il Libano parte della Grande Siria, della propria patria insomma, e quindi il fatto che il Libano sia indipendente è un’anomalia.
Un’aberrazione, tant’è che la Siria, come lei sa, non ha assolutamente intenzione di aprire un’ambasciata a Beirut, perché significherebbe accettarne la diversità, accettare che sono due Paesi diversi. Per loro il Libano è una provincia. Questa è l’analogia che ci sta dietro. Tutto quello che esprime indipendenza, autonomia, volontà di separazione, è percepito dal regime di Assad come una minaccia alla propria integrità. E’ come dire lapalissiano.
Quindi Rafik Hariri, rappresentando l’autonomia dell’uomo libero dopo la guerra civile, la ricostruzione, l’indipendenza, era un nemico, un elemento da eliminare. Quindi capisco che Walid Jumblatt si renda fautore dell’indipendenza del Libano in modo estremamente vociferante, sostenendo che suo padre sia stato assassinato. Io sono abbastanza convinto che le cose siano molto più complicate, che ci siano molti e molti elementi ben contenti di assassinare e di bloccare qualsiasi tipo di autonomia e di indipendenza economica e politica del Libano, senza andare a dover scomodare il governo di Bashar Assad. Potremmo stilare un elenco che vada da Al Qaeda agli Hezbollah, ai gruppi palestinesi più estremisti, al terrorismo internazionale.
Il Libano è un gioiello, il Libano è un Paese veramente piacevole, dove c’è una stampa libera, dove ci sono gruppi che si oppongono e lo dicono apertamente, dove c’è la libertà di parola, e quindi ha provocato molto fastidio in una visione più geocentrica, più planocentrica, e comunque sirianocentrica di quel mondo.
Ora per quel che riguarda Rafik Hariri è stato istituito il tribunale internazionale. E guarda caso, proprio adesso che finalmente l’ONU ha istituito il tribunale speciale scoppiano queste cose, guarda caso scoppia il problema dei campi palestinesi, guarda caso il leader di Fatah al Islam è un ex giordano, palestinese, che è stato un anno in carcere in Siria per traffico d’armi. E lei sa che in Siria quando uno viene arrestato specialmente con accuse così dure rimane in carcere vent’anni, mentre questo dopo un anno viene liberato e guarda caso ce lo ritroviamo in Libano.
Ne abbiamo di prove, abbiamo la prova diretta? Noi no, abbiamo tutta una serie di elementi non libanesi, specialmente afgani, pakistani, algerini e ceceni, quindi provenienti da queste nuove meteore del terrore, che da qualche parte sono pure entrate. Siccome dall’aeroporto è un po’ difficile, sono entrate quindi dalla Siria.
 
Un’ultima domanda tecnica sul vostro equipaggiamento, attrezzatura. I suoi colleghi mi hanno descritto il fatto di portare giubbotti blu con la scritta press piuttosto che tv, elmetti di colore diverso da quello dei militari appunto per essere distinti, per non essere scambiati per soldati, o paramilitari e via dicendo e mi sembra anche un’ottima idea. Ma in scenari come Iraq, Afghanistan, dove purtroppo c’è questa caccia al giornalista, lei non pensa che si possa arrivare all’effetto contrario, cioè di evidenziarvi troppo e quindi, oltre a proteggervi fisicamente, a mettervi in evidenza, in modo negativo e pericoloso? 
(C): Assolutamente sì, e questa è una scelta. La mia scelta è sempre stata quella del basso profilo totale, quindi djellaba, pantofole di plastica come hanno gli iracheni o gli afgani, barba lunga, – lunga, lunga eh – macchine assolutamente non visibili, non la Mercedes con scritto Press, ma il taxi scassato, rugginoso, polveroso. Del resto io ho assistito, davanti a me, proprio a 100 metri, all’assassinio di due giornalisti polacchi nel 2004, dove poi venne ucciso Baldoni. Quello era un punto pericolosissimo e lì io mi nascondevo, stavo sotto una coperta oppure giravo con una keffiyah in testa.
Quindi: assolutamente non il giubbotto anti- proiettile, non casco o elmetto a pois o a pallini gialli e neri con scritto Press, ma l’assoluta omogeneizzazione con la popolazione locale. Naturalmente c’è posto e posto. Perché io in quel modo mi travesto sicuramente come un civile e vado in giro non visibile in mezzo ai civili. Però se la bomba mi cade vicino, se vado vicino ad una zona di guerra allora… Forse servirebbero delle protezioni.
A parte che in Iraq e in Afghanistan le persone hanno paura, perché se tu vieni fermato da una milizia e hai il giubbotto antiproiettile ti farebbero fuori subito. Lo farebbero perché sei comunque occidentale, sei comunque percepito come una spia, perché un occidentale che va in giro vestito in borghese, col giubbotto, è una spia, è assolutamente ambiguo.
Per esempio, quando tu sei embedded, con gli americani o gli italiani, hai l’obbligo: non ti mettono sugli aerei, non ti mettono sugli Hercules, non ti portano sugli autoblindo, se non hai il tuo elmetto ed il giubbotto antiproiettile. Perché hanno un problema di assicurazioni, e l’assicurazione non paga se tu non sei protetto. Se vai in giro con gli americani, la prima richiesta è che tu “ti vesta”, perché se non ti copri non sarai nemmeno pagato dall’assicurazione. Quindi direi che la regola è: se tu vai come istituzionalizzato, comunque sia ti sei già condizionato in quanto perfettamente visibile, perché se tu sei sull’autoblindo tanto vale difenderti al meglio. Perché a questo punto il rischio principale è che ti sparino contro come ad un soldato, o che cerchino di rompere il vetro e di sparare, quindi a quel punto hai bisogno di difese passive.
Non ne hai invece bisogno se giri come civile, anzi, hai bisogno di agilità e di travestimento, affinché tu possa veramente essere – come dice il mio amico Battistini – un cane sciolto. Un cane sciolto, certo. Quindi immagino sia molto importante la fiducia verso l’interprete, l’intermediario. Assolutamente.
Direi che il grande lavoro dell’inviato comincia con la scelta dell’interprete, quella che per esempio Mastrogiacomo non ha fatto, diciamo pure una piccola cattiveria.
 
Signor Cremonesi, la ringrazio per la sua pazienza e la cortesia, e per il suo contributo a questa mia serie di interviste.
Grazie ancora e buon lavoro.


Lorenzo Cremonesi, Dai nostri inviati. Inchieste, guerre ed esplorazioni nelle pagine del Corriere della Sera, Rizzoli – Fondazione Corriere della Sera, Collana “Il Corriere Racconta”, Milano 2008.

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