La Gioconda: 1911, quando fu troppo facile rubarla al Louvre

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1911: Vincenzo Pietro Peruggia ruba la Gioconda

di Valerio Marchi

Rubare oggi la Gioconda di Leonardo da Vinci? Praticamente impossibile. All’inizio del secolo scorso, però, non solo oggetti d’arte e reperti autentici venivano periodicamente sottratti dal Louvre, ma ne entravano abusivamente di falsi, e non mancavano gli atti di vandalismo… Si stabilirono allora nuove misure di sicurezza, si aumentò il numero dei custodi e, circa i quadri, si decise di farli coprire con un vetro: per quest’ultima incombenza l’incarico spettò ad un’impresa che si serviva anche di lavoratori occasionali. Fra questi ultimi, impiegato a più riprese il 1908 e il 1911, c’era un trentenne immigrato italiano: Vincenzo Pietro Peruggia, originario di una piccola frazione di Dumenza, presso il confine svizzero.

Vincenzo Pietro Peruggia

 

Chi era Vincenzo Peruggia?

Imbianchino, decoratore, tuttofare, Vincenzo era un po’ introverso ma sapeva essere di compagnia quando suonava il mandolino, rafforzando peraltro lo stereotipo dell’italiano “pizza, pasta e mandolino”, per cui i colleghi di lavoro francesi lo prendevano spesso in giro. Una persona come tante, una storia come tante, ma solo fino a quando il nostro uomo salì agli onori delle cronache per aver “rapito” la Monna Lisa ed essersela tenuta per un paio d’anni. Poi, dopo la cronaca, sarebbe passato alla storia.

L’azione

Lunedì 21 agosto 1911 era giorno di chiusura del Louvre. Avevano accesso solo alcune persone accreditate, i funzionari del museo e gli addetti alla manutenzione e alla (cosiddetta) sicurezza. Poco dopo le 7, Vincenzo entrò dalla porta Jean Gujon, la più utilizzata dagli operai. Avendo già lavorato lì, egli evidentemente non destò sospetti e percorse il pianterreno fino al Salon Carré dove, accanto ad altri quadri, era esposta la Gioconda. Nei giorni di chiusura la sorveglianza del Louvre era affidata a pochi addetti, peraltro in genere alquanto rilassati: Il custode del Salon Carré, poi, aveva avuto una giornata di permesso.

Inosservato, Vincenzo staccò il quadro dalla parete e con nonchalance, grazie ad un misto di pianificazione, furbizia e improvvisazione, e ad alcune circostanze favorevoli, liberò la Gioconda dal vetro e dalla cornice, la coprì con il camice da operaio e uscì tranquillamente dal portone sul Lungo Senna: in pochi minuti, ecco il furto del secolo. Poi tornò a casa e depose la Gioconda nella sua stanza in affitto in rou de l’Hospitale Saint-Louis, dove vivevano molti italiani.

La scoperta del furto

Soltanto il giorno dopo ci si accorse dell’assenza della Gioconda. Scattarono le indagini e, fra le tante cose, si decise di far visita a chi aveva già lavorato al Louvre, dunque anche a Vincenzo. Gli investigatori gli posero le domande di rito ma non rilevarono nulla di particolarmente sospetto: peccato che la refurtiva l’avessero lì, proprio sotto il tavolo al quale si erano seduti. Inoltre Vincenzo, al pari di molti altri, fu chiamato alla centrale di polizia per confrontare un’impronta digitale ritrovata al Louvre con le sue, ma non si presentò, e nessuno ci fece caso.

Le indagini

Le ipotesi si sprecarono e i fatti curiosi non mancarono: basti ricordare che furono indagati anche personaggi del calibro di Picasso e Guillaume Apollinaire, già coinvolti in una strampalata vicenda di ricettazione di statuette fenicie rubate qualche anno prima. Si pensò ovviamente anche ad una banda di professionisti del crimine (forse ebrei, tedeschi, belgi… chissà) e non mancarono infinite congetture e segnalazioni di cittadini fin troppo zelanti, oppure di “veggenti”, o di burloni e mitomani: tutti ne parlavano ovunque e il capolavoro di Leonardo ingigantì la sua già vasta celebrità. Monna Lisa tuttavia, non era lontana dal Louvre: era lì, in compagnia del povero immigrato italiano, “lupo solitario” quasi per caso, nella sua dimora.

Le zone d’ombra

La vicenda ha conservato zone d’ombra. Per esempio, il ruolo dei fratelli Vincenzo e Michele Lancellotti – due amici di Vincenzo che abitavano nel suo stesso palazzo – e di altri che probabilmente ressero il gioco. Comunque sia, Vincenzo giurerà sempre di aver concepito il furto da solo e da alcune sue lettere scritte alla famiglia emerge la figura di un ingenuo calcolatore, un maldestro idealista, innocuo e scaltro al tempo stesso. Ma cosa intendeva fare dell’opera rubata?

Dalle fonti si ricavano alcuni tentativi di vendere la Gioconda e sistemare così se stesso e la propria famiglia; nondimeno, emerge il desiderio, che pare sincero, di riportare “patriotticamente” la preziosissima opera in Italia e di rivalersi sui francesi spocchiosi e “ladri” (era erroneamente convinto – e non era l’unico – che la Gioconda fosse arrivata in Francia in seguito alle spoliazioni napoleoniche).

Sta di fatto che alla fine del 1913 Vincenzo a portò il quadro a Firenze, sperando di ricevere una “ricompensa” e di vederla esposta, come scrisse, «alla Galleria degli Uffizi al posto d’onore, per sempre», e aggiunse: «Sarebbe una bella rivincita sul Primo impero francese…». Ma anche Roma – annotò – sarebbe stata una collocazione idonea. Così l’11 dicembre 1913, a Firenze, la Gioconda sbucò da un baule pieno di vestiti e cianfrusaglie, davanti agli occhi increduli dell’antiquario e collezionista d’arte Alfredo Geri e del direttore degli Uffizi Giovanni Poggi. Il giorno dopo si ebbe la conferma che l’opera era autentica ma, al posto della ricompensa, Vincenzo ricevette la visita dei Carabinieri: erano passati 28 mesi dal rapimento della Gioconda.

La notizia fece il giro del mondo, mentre l’ondata nazionalistica italiana favorì la costruzione di un personaggio-Peruggia “eroico patriota”. Tuttavia, le arti della diplomazia evitarono uno scontro fra l’Italia e la Francia, dove Monna Lisa venne fatta rientrare. La Francia ringraziò l’Italia per la collaborazione e concedette ai Savoia di esporla per qualche giorno a Firenze, Roma e Milano, prima di riaccompagnarla al Louvre, ciò che avvenne il 21 dicembre di 110 anni fa.

La pena

Il 29 luglio 1914, nel giudizio d’appello del processo, la pena stabilita fu di sette mesi e otto giorni di reclusione e Vincenzo, che l’aveva già scontata con il carcere preventivo, fu subito liberato. All’uscita, una delegazione di cittadini gli offrì una colletta a nome degli italiani: 4500 lire, davvero niente male se si considera che lavorando in Italia potrebbe guadagnare 8-9 lire al giorno. E qui cominciò una nuova epoca della sua vita: ladro ed eroe, con una popolarità bifronte, mentre distribuiva cartoline con la riproduzione della Gioconda, autografandole.

Il vortice della Grande guerra lo allontanò dal palcoscenico della notorietà, risucchiandolo: catturato a Caporetto, finì in un campo di lavoro austriaco, ma infine ne venne fuori, nel 1921 si sposò e, nonostante fosse stato dichiarato persona non gradita Oltralpe, riuscì a trasferirsi assieme alla moglie Annunciata in un sobborgo di Parigi attraversando la frontiera con il suo secondo nome, Pietro: facile facile, proprio come entrare al Louvre nel giorno di chiusura e uscirne con la Gioconda sottobraccio…

Nel 1924 i coniugi Peruggia si recarono a Dumenza per dare la cittadinanza italiana alla figlia che stava per nascere e che chiamarono Celestina (poi nota a tutti come “la Giocondina”), vissuta fino al 2011, esattamente un secolo dopo il furto. Quindi i Peruggia rientrarono in Francia, ma l’8 ottobre del 1925, giunto sulla soglia di casa con una bottiglia di champagne e un vassoio di paste per festeggiare il 44° compleanno suo e quello della moglie Annunciata (erano nati nello stesso giorno, lei dieci anni dopo di lui), Vincenzo venne fulminato da un infarto.

Valerio Marchi

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