Perché fare e studiare la storia del giornalismo? “Historia… testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae”. “La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita” diceva Cicerone nel I secolo a.C. nel suo De oratore. Magistra vitae, maestra di vita.
Non tutti gli storici allora concordarono con questa affermazione e a tutt’oggi non hanno ancora trovato un accordo. Se è vero che la storia non è in grado di insegnare qualcosa a qualcuno — ammesso che sia vero — è pur vero che essa è almeno in grado di fornire qualche spunto di riflessione, qualche elemento che possa servire da chiave interpretativa del presente. Del resto — è già stato osservato — gli storici sono coloro che vivono tra due tempi, il passato e il presente, e che passano continuamente dall’uno all’altro interrogando e spiegando ciascuno dei due attraverso l’altro.
Nello studio della storia, un posto assai importante è occupato dallo studio dei “media” ovvero dallo studio dei mezzi di comunicazione che attraverso l’uso delle parole e delle immagini hanno saputo diffondere, in ambiti sempre più ampi, informazione e idee. Orbene, proprio lo studio della storia dei giornali, il più prestigioso anche se non il più antico mezzo di comunicazione ci permette non solo di ricostruire la memoria storica di un’importante attività dell’uomo, ma anche di fare qualche considerazione utile e meglio comprendere il presente, il nostro presente.
Quando nel XVII secolo le gazzette — le antenate dei nostri giornali — incominciarono a diffondersi per tutta Europa si pose immediatamente il problema del loro rapporto con il potere. Le autorità di ogni paese, accortesi immediatamente delle loro potenzialità e della loro pericolosità, si adoprarono con ogni mezzo per esercitarne il controllo ora ricorrendo alle blandizie, attraverso la concessione di privilegi alle più affidabili, ora ricorrendo alle vessazioni attraverso l’imposizione del diritto di bollo da pagare su ogni copia stampata, ora infine reprimendo con l’odiosa censura. Non solo. Le gazzette non furono unicamente “armi” da controllare, ma furono anche “armi” idonee a guidare il consenso. A questo fine molti governi non si limitarono a concedere privilegi, non si limitarono ad esercitare la censura, ma diventarono essi stessi editori di carta stampata.
L’esercizio del controllo sulla stampa e la sua utilizzazione per catturare il consenso di un pubblico che andava via via espandendosi non furono solo prerogativa dei governi settecenteschi. Più la stampa periodica si diffondeva e cresceva nel tempo diventando uno strumento di orientamento culturale indispensabile nella formazione della pubblica opinione, più i pubblici poteri cercarono di imbavagliarla talvolta riducendo la libertà di stampa ad un vero e proprio fantasma. Questo fu quanto avvenne in età napoleonica e questo fu quanto avvenne nell’età della Restaurazione. In entrambi questi periodi infatti, il numero delle testate fu drasticamente ridotto, e quindi meglio controllabile, e il lavoro dei giornalisti — allora si chiamavano “estensori” — costretto al silenzio col carcere o anche con qualche assai più “moderno” mezzo di coercizione. Si pensi al curioso caso di Giuseppe Lattanzi, direttore all’inizio dell’Ottocento dell’innocuo giornale femminile “Corriere delle dame” rinchiuso in manicomio per aver pubblicato una notizia risultata poi vera…
E questo fu quanto avvenne in un’epoca più vicina alla nostra, negli anni del fascismo. Durante il regime i modi di controllo — o meglio di imbavagliamento — della stampa apparivano decisamente cambiati, modernizzati. Ma se i modi erano diversi, identica appariva la sostanza. Mussolini — come del resto Napoleone (!) e come gli imperatori austriaci — ben consapevole dell’importanza di avere a disposizione i mezzi di comunicazione per catturare il consenso degli italiani, elaborò una strategia volta a stroncare ogni critica ed opposizione e a ridurre “alla ragione” la stampa. Procedendo per gradi, egli utilizzò ora gli strumenti legislativi, ora quelli polizieschi. Incoraggiò il passaggio di proprietà dei giornali considerati strategici a persone fidate, cambiò dovunque la direzione dei periodici, piccoli o grandi che fossero, e irregimentò i giornalisti. In breve, come ben osserva lo storico del giornalismo, Paolo Murialdi, Mussolini, diventando dittatore, diventò anche il direttore unico e unico redattore capo di tutta la stampa italiana…
Il desiderio di controllare, di condizionare o, quanto meno, di incidere sulla carta stampata non si è ancora spento. É una costante nella storia dei giornali, anche in regimi di libertà di espressione, quella libertà tanto spesso conquistata, magari col sangue, a partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, e, come si è detto, tanto spesso perduta.
La storia del giornalismo non è tuttavia fatta solo di zone d’ombra, ma presenta anche molti aspetti positivi su cui riflettere e da cui trarre ragioni di speranza. Lo stesso sistema censorio, nel corso della storia, ha fatto sì che i giornali abbiano sviluppato robusti anticorpi ricorrendo ora alla stampa clandestina (si pensi all’età della Restaurazione o all’epoca del fascismo) ora riuscendo a resistere e ad opporsi ad ogni tentativo di prevaricazione del potere, diventando essi stessi potere, il “quarto potere”, che ha saputo anche travolgere governi e presidenti.
Il diritto di espressione sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 è insomma uno strumento di libertà di cui l’uomo torna sempre ad impadronirsi nonostante qualche, sia pur grave, incidente di percorso e di cui la democrazia non può fare a meno.
La storia del giornalismo, per concludere, costituisce una prospettiva attraverso la quale si legge la storia con la “esse” maiuscola, si vive l’inesauribile confronto tra libertà e potere e si riflette, sul saldo terreno dell’esperienza, sui misfatti e sui progressi che l’informazione ha provocato e può provocare.
Ada Gigli Marchetti
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