Di Valeria Palumbo
Chi l’avrebbe mai detto: perfino la trasgressiva, ma in tutt’altre faccende affaccendata Colette scrisse sulla Prima guerra mondiale. E per averla vista da vicino. Nel 1914 la scrittrice francese, già redattrice de Le Matin, partì per il fronte al seguito del marito, il barone Henry de Jouvenel des Ursins. Lo accompagnò a Verdun, svelando il fenomeno pochissimo noto delle tantissime spose che seguirono i mariti sul fronte e vissero nascoste per non essere rispedite a casa. Poi lo accompagnò in giro per la Francia e l’Italia registrando gli umori delle truppe in partenza, le reazioni delle donne rimaste a casa, i commenti del bel mondo. Come emerge da Le ore lunghe, la raccolta di saggi pubblicati di recente da Del Vecchio editore, Colette fu tutt’altro che un’osservatrice neutrale: il suo odio per i tedeschi, così vivacemente manifestato, sembra piuttosto richiamare la Seconda guerra mondiale. E il suo nazionalismo è carico di una retorica che, altrove, le è del tutto estranea.
Detto questo si potrebbe pensare che quella di Colette sia stata una digressione e pure isolata. Invece, benché respinte dagli stati maggiori, ostacolate dalle loro stesse redazioni, condannate dal pubblico per la loro audacia, le corrispondenti di guerra sono esistite anche nel conflitto 1914-1918. A dire il vero i reportages femminili di guerra esistono da molto prima, pe esempio dal nostro Risorgimento. Ma lo spazio è tiranno: faremo pochissimi nomi.
Il primo è quello di Nellie Bly, tra le più straordinarie e coraggiose reporter di tutti i tempi (si fece perfino chiudere in un manicomio per raccontarlo dall’interno). Già autrice di un formidabile giro del mondo in 72 giorni (una sfida tutta virtuale con Phileas Fogg, il personaggio creato da Jules Verne), Nellie coprì anche il fronte orientale, sia quello austro-russo, sia quello serbo-austriaco.
Era nata il 5 maggio 1864 in Pennsylvania ed era tredicesima dei 15 figli del facoltoso giudice e uomo d’affari Michael Cochran. In realtà si chiamava Elizabeth Jane Cochran (poi si aggiunse per vezzo una “e” finale), era detta Pink, ed era giornalista e scrittrice. Per il giro del mondo partì il 14 novembre 1889, da New York. Vi tornò il 25 gennaio 1890, accolta in trionfo. Aveva dimostrato l’impossibile: che una donna sola poteva compiere un’impresa tanto audace. Senza macchiare il suo onore. Sembra stupido. Ma all’epoca non lo era affatto. Al ritorno continuò a pubblicare le sue inchieste e le sue interviste sul New York World. Un matrimonio tardivo le fece lasciare il giornalismo: un precoce fallimento economico ce la fece tornare. Tra il 1914 e il 1915, arrivò in Austria e inviò al New York Evening Journal una serie di articoli dal fronte serbo.
Morì di polmonite il 27 gennaio 1922, al St. Mark’s Hospital di New York.
Inviò invece reportages dal fronte francese una grandissima scrittrice statunitense, la prima a vincere un premio Pulitzer (per inciso Pulitzer era stato il direttore della Bly): Edith Wharton, che per questo e per il suo incredibile impegno umanitario, fu decorata dalla Francia con la Légion d’honneur. I suoi articoli furono raccolti nel volume Fighting France.
Se Peggi Hull fu, nel 1918, la prima corrispondente di guerra riconosciuta dal governo statunitense, Annie Vivanti affrontò, nel dramma L’Invasore (1915), il tema degli stupri delle donne belghe durante l’occupazione tedesca. Lo riprese nel romanzo Vae victis (1917). La censura fu pressoché totale. Per fare un altro esempio: Mary Roberts Rinehart, che spesso viene soprannominata l’Agatha Christie americana (in realtà cominciò prima e in qualche modo è la mamma di Batman), fu corrispondente sul fronte belga e francese. Proprio come Mary Borden, straordinaria autrice di The Forbidden Zone.
E poi c’è tutta la produzione letteraria e memorialistica delle donne che combatterono davvero. Prima di tutto Marija Bochkareva, alias Yashka, una donna del popolo, analfabeta che riuscì a diventare ufficiale dell’esercito russo, prese tre medaglie al valore, una croce di San Giorgio e accumulò un curriculum di ferite e coraggio. Nel 1918 avrebbe affidato le sue memorie a Isaac Don Levine, un giornalista ebreo di origine russa che le pubblicò un anno dopo con il titolo Yashka: My Life As Peasant, Exile and Soldier. Nel maggio 1917, a seguito della prima fase rivoluzionaria, Marija aveva ottenuto dal leader del governo provvisorio e ministro della guerra, Alexander Kerensky, di formare un battaglione di sole donne Fu uno scandalo al quale i russi reagirono addirittura con violenza. Alla fine della campagna di reclutamento, che lei stessa aveva condotto, la Bochkareva riuscì a schierare circa 2mila donne tra i 18 e i 35 anni. Dopo i primi combattimenti, però, il loro numero si ridusse a 250 unità circa. Ciò non toglie che il loro schieramento entusiasmasse una fervente femminista come Louise Bryant, che accompagnava il celebre giornalista John Reed (autore de I dieci giorni che sconvolsero il mondo), e che anche la più famosa suffragetta inglese, Emmeline Pankhurst, in viaggio in Russia nell’estate del 1917, abbia inviato reportages pieno di entusiasmo sulle soldatesse di Marija alla rivista del suo movimento, Britannia.
Russa era anche Marina Yurlova, che era nata nel 1901 in un paesino sui monti del Caucaso. A 14 anni, facendosi passare per un ragazzo, si arruolò nell’esercito zarista. Fu mandata come servente in Armenia, ma dopo soli due mesi fu spedita sul fronte turco. Nel 1915 fu ferita su fiume Erivan, tornò poi in battaglia, questa volta a Oriente. Una nuova ferita le provocò anche un crollo psicologico. Nel 1919 si congedò e decise di emigrare negli Stati Uniti. Lì pubblicò due autobiografie: Cossack Girl (1934) e Russia Farewell (1936).
Scrisse le sue memorie anche Flora Sandes, la figlia di un pastore scozzese, nata nel 1876. A fine novembre del 1915, quando l’esercito serbo, incalzato da quello austriaco e dalle forze bulgare, si ritirò fino al Kosovo, Flora, che fino a quel momento aveva servito come infermiera, chiese di essere arruolata come soldato ed entrò nel Reggimento di ferro. Nel novembre dell’anno successivo, fu promossa sergente-maggiore. Nel corso dello stesso anno fu ferita da una granata. Subito dopo pubblicò le sue memorie, An English Woman-Sergeant in the Serbian Army: sperava col ricavato di raccogliere fondi per la causa serba. Finita la guerra decise di rimanere nell’esercito serbo: arrivò fino al grado di capitano e poi si ritirò, dopo aver ricevuto la massima decorazione, la stella di San Giorgio.
Tags: donne, giornalismo, guerra